Walter Bonatti: ai confini dell’umano
Suonerà paradossale, ma il rischio, quando si ha a che fare con Walter Bonatti, è di cedere alla pigrizia. Una volta ripercorsa la sua biografia di alpinista estremo (quindici anni di imprese “impossibili”), di fotoreporter d’avventura (altri quindici di viaggi straordinari) e di comunicatore (mezzo secolo di libri e conferenze), una volta dunque preso atto che quella di Bonatti è stata una vita irripetibile vissuta in un mondo che nemmeno esiste più, rischiamo infatti di rassegnarci all’irrimediabile distanza tra lui e noi, comuni mortali. Se quel che “lui” ha compiuto è sovrumano, allora siamo esentati dal confronto: tanto vale adagiarci nell’ammirazione e farne un santino da salotto. Una leggenda. Così, però, l’uomo si riduce pian piano alla sua fotografia, bidimensionale e muta (succede, ai santini): ne perdiamo la vitalità, lo spessore, e rischiamo di non sentire ciò che ha ancora da raccontare. In direzione opposta si muove la mostra Walter Bonatti. Stati di grazia (a Torino fino al 5 dicembre), che a dieci anni dalla scomparsa ha inteso ricordare Bonatti proprio “ridandogli voce”, evidenziando l’attualità delle sue imprese e spingendosi quindi oltre le rituali celebrazioni. Supportata da un ricco catalogo che ne moltiplica le suggestioni, l’esposizione si muove letteralmente sulle tracce di Bonatti, esponendo oggetti e immagini ma anche recuperandone le parole e ricostruendone gli ambienti (la montagna, i ghiacci, le giungle, i vulcani), i suoni, i colori. Il tentativo è di far scoprire al visitatore un filo, un tema che corre lungo tutta l’esperienza bonattiana e collega gli anni dell’alpinismo a quelli dei viaggi esotici per il settimanale illustrato Epoca.
Gli “stati di grazia” di Bonatti
Il tema è quello che dà il titolo alla mostra stessa: gli “stati di grazia” di Bonatti, ovvero le situazioni di fusione con l’ambiente da lui vissute e raccontate; situazioni che, a seconda dei casi – e del grado di pericolo, o di stupore –, inducevano di volta in volta in lui degli stati di straniamento quasi ipnotico, o un’esaltazione “atletica” (con relativa sovrumana fiducia nelle proprie capacità), o un’inaspettata empatia verso gli animali selvaggi e le tribù primitive con cui condivideva la quotidianità. Sempre comunque percependo in sé il risveglio di istinti primordiali sepolti, o narcotizzati dalla civilizzazione. Esperienze di ritorno a uno stato naturale, insomma, favorite dal fatto che, tanto in montagna quanto in giro per il mondo, Bonatti cercò sempre di ridurre al minimo il ricorso a strumenti artificiali (niente chiodi a espansione, niente contatti radio, niente ammennicoli tecnici, niente armi), così da dover trovare in sé le risorse e le soluzioni ai problemi via via incontrati, rivivendo dunque le difficoltà e gli stati d’animo dei pionieri, quando non addirittura dei nostri progenitori.
Anche le rudimentali attrezzature esposte in mostra testimoniano di un rapporto non mediato, ma pulito e leale con la natura, del suo approccio “a impatto zero”, così come le foto lo vedono immerso nella wilderness e fuso con il paesaggio. In questo modo Bonatti si aprì a una diversa visione del mondo: il suo stile, basato su una singolare miscela di solitudine ed empatia, slancio e introspezione, curiosità e prudenza, gli permise di entrare in dimensioni particolari (uscendone sempre illeso, peraltro) e di sperimentare situazioni eccezionali, compresi appunto i suoi “stati di grazia”. In molti dei suoi racconti si trovano passaggi in cui Bonatti, come Alice, attraversa lo specchio e si ritrova in un’altra dimensione.
Nelle grotte di ayers rock, centro australia, luglio 1969. l’archivio bonatti, custodito al museo della montagna, conserva oltre 100 000 foto, migliaia di documenti e centinaia di pezzi tra oggetti etnici, attrezzatura alpinistica e fotografica, registrazioni audio e video.
Dicembre 1974: bonatti in arrampicata verso le nicchie funerarie di un villaggio toraja, al centro dell’isola sulawesi, in indonesia. nel corso dello stesso viaggio si spingerà fino a incontrare le tribù primitive dani della nuova guinea.
Isola más a tierra, arcipelago juan fernandez, cile, dicembre 1970. partito sulle orme di un romanzo d’avventura, walter bonatti trascorse una settimana sull’isola del marinaio selkirk, che ispirò a daniel defoe il suo robinson crusoe.
La debolezza di Walter Bonatti
Bonatti cerca di conoscere meglio se stesso e il mondo (se stesso nel mondo) mettendo in gioco il proprio corpo, il che non significa necessariamente rischiare la vita, ma certo significa esporsi con le proprie debolezze, che sono poi quelle della nostra specie. La “debolezza” di Bonatti è quella dell’uomo che si presenta a mani nude di fronte alla natura, riduce le distanze e ne riceve in cambio un contatto privilegiato con il genius loci: lo spirito del luogo. Già nel 1961, al suo primo libro e ancora nel pieno della sua “prima vita” di alpinista, scrive frasi come: “La montagna, le sue rocce, il vuoto erano diventate cose così vive in me da farmi giungere persino, poco alla volta, a compenetrare in loro, a sentirle inconsciamente parte di me stesso, tanto da formare con esse un unico corpo”. E pochi anni dopo, ancor più chiaramente: “Ciò che succede in quei momenti ti sfugge quasi di mano, perciò vivi e ti lasci vivere liberamente. In quello stato di suprema libera esistenza puoi scoprire di trovarti molto al di là dei limiti consentiti a un comune mortale, sorretto unicamente da una forza indecifrabile, che per me stesso io definirei ‘stato di grazia’”. Si capisce dunque come, per lui, l’esplorazione dell’ambiente fosse diventata anche una ricerca interiore: si trattava, in entrambi i casi, di oltrepassare i confini – fossero geografici, fisici, o psicologici.
La disponibilità a incontrare l’ignoto
Ci si immerge nel mondo per far riemergere una parte sopita di sé. In ciò risiede molto del fascino che Bonatti continua a esercitare: in questa sua disponibilità a incontrare l’ignoto, l’Altro e l’Altrove, per scoprire qualcosa di nuovo e riscoprire qualcosa di antico che ci riavvicini a noi stessi, a ciò che eravamo e che potremmo essere. Un tema che negli ultimi anni, in questo clima da apocalisse al rallentatore, è comprensibilmente tornato di attualità anche in ambito antropologico e filosofico, tra critiche all’Antropocene, ammiccamenti allo sciamanesimo o all’animismo, richiami alla necessità di una diversa relazione proprio con il non-umano. I nomi, più o meno famosi, sono ormai innumerevoli: da Philippe Descola a Donna Haraway, da Baptiste Morizot a Nastassja Martin, da Eduardo Viveiros de Castro ad Anna Lowenhaupt Tsing a Pablo Servigne, ognuno con il proprio metodo, ma tutti impegnati a cambiare il nostro punto di vista sul mondo. È una rivoluzione culturale solo abbozzata, una strada che non sarà né breve né pacifica.
Nuku-hiva, oceano pacifico, settembre 1969. ispirandosi a taipi, il primo romanzo di herman melville, bonatti (1930-2011) seguì pagina per pagina le tracce dell’autore attraverso le foreste dell’isola.
Giugno 1965: in bivacco sulle sponde dello yukon, in canada. nel suo primo reportage per il settimanale epoca, bonatti ripercorse i sentieri di jack london, visitò i luoghi della corsa all’oro e navigò per 2 500 chilometri in canoa, fino alle soglie del circolo polare artico.
Le imprese di Walter Bonatti
Nel frattempo, precursori come Bonatti indicano però sentieri alla portata di tutti, modulabili da ciascuno secondo le proprie capacità: “Se per ogni nostra impresa ci avvalessimo, nei limiti del ragionevole, dei soli mezzi umani che la natura ci ha fornito, è certo che vedremmo più chiaramente quel che cerchiamo e fin dove ci è consentito arrivare. Allora, tutto dipendendo da risorse e limiti soggettivi, infinite nuove imprese ci attenderebbero sui fiumi, nelle giungle, sui monti, nei deserti, in ogni dove; al punto che la nostra vecchia Terra ci apparirebbe, come per incanto, inesauribilmente inesplorata. Questo nuovo criterio eserciterebbe su ciascuno di noi un effetto implosivo, qualcosa che definirei ‘esplorazione introspettiva’. Scoprire l’uomo scavando dentro se stessi è indubbiamente la più stimolante delle avventure. Ma lo sarà ancora di più se la ricerca avrà come sfondo la natura intatta, la stessa che ci ricollega alle origini ma che è rimasta fuori dalla portata di chi troppo spesso non sa, o non vuole, coglierne la preziosità. La natura è vita ed è la nostra salvezza, non soltanto fisica”.
“Esplorare se stessi”
La mostra di Torino testimonia anche di questa inesausta ricerca di sé e di territori “puliti” nei quali esercitarla. Ricordando che, come scrisse ancora Bonatti, non è necessario andare in Amazzonia per “esplorare se stessi”: basta guardarsi intorno con la disponibilità a vedere bellezza anche in ciò che diamo per scontato, e che scontato non è (più). Nelle ingenue, eroiche avventure di Bonatti, di volta in volta alpinista e Tarzan, Robinson e Livingstone, solitario e carovaniere, sentiamo qualcosa che non è solo nostalgia di avventura ed esotismo, ma anche desiderio di rinascita e immediatezza. Questo forse è un esercizio alla portata nostra e della nostra (eventuale) pigrizia: essere Bonatti, ciascuno a suo modo.