Moda, quando l’abito entra nel metaverso virtuale e social
All’Hamburger Bahnhof di Berlino, ex stazione monumentale trasformata in un museo, per tutto febbraio è in programma una mostra dell’artista Sandra Mujinga, specializzata nello scrivere poesie con i tessuti. In due stanze vuote s’impongono alcune figure mastodontiche, coperte dalla testa ai piedi, i cui abiti – forati qui e lì – si vanno lentamente sfilacciando, fino a dissolversi e scomparire in alcuni punti. Non c’è metafora migliore del mutamento in corso nel mondo della moda, che perde atomi, arretra sul piano della fisicità, mentre s’ingigantisce nell’universo dei bit. Che si parli di videogame, realtà aumentata, accessori con orpelli tecnologici di serie, non c’è analista che non guardi con curiosità, e favore, al fermento in corso.
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Esperienza di vita delocalizzata, anche nella moda
Mentre i grandi marchi, assetati di novità e pilotati dal marketing, sperimentano tanto e volentieri. La parola chiave, già abusata allo sfinimento, è metaverso: un’esperienza di vita delocalizzata, la prossima dinamica dei social network. Con un visore in testa o gli occhi affossati in uno schermo, potremo incontrare amici, confrontarci con i colleghi, riconnetterci con parenti lontani muovendoci dentro stanze e paesaggi virtuali. Un’altra vita, da un’altra parte, che non esiste davvero, anche se si fingerà il contrario. La percorreremo attraverso gli avatar, cloni identici o stravolgimenti della nostra immagine, che dovranno pur vestirsi. Di quello che ciascun software offre di base oppure, per ben figurare, attingendo presso boutique di grandi griffe, anch’esse tuffate nell’abbacinante, multiforme metaverso.
L’affare potenziale è enorme: la banca d’affari Morgan Stanley prevede, nel solo segmento del lusso, introiti pari a circa 50 mld di $ entro il 2030. La stima potrebbe essere per difetto, se si pensa che oggi – il calcolo è della società americana DMarket – il mercato delle skin produce un giro d’affari da 40 mld di $ ogni 12 mesi. Le skin non sono nient’altro che l’allargamento di un’epopea compiuta: abiti e accessori messi addosso dai videogiocatori ai personaggi dei loro titoli preferiti, blockbuster quali Fortnite o League of Legends. Il ragionamento è persino banale, o comunque matematico: il comparto dei videogame valeva 176 mld di $ a fine 2021, dovrebbe superare i 204 nel 2023 (stime Newzoo). E la moda, di fronte a tanto lievitare, non è rimasta indifferente né inerte: si è fiondata, intrufolata, messa in vetrina nei territori di pc e console con brand come Louis Vuitton o Prada, solo per citarne alcuni, improvvisati stilisti virtuali per protagonisti di saghe milionarie. Perché non dovrebbero riproporsi nel metaverso, dove i look non sono per principesse algide o prestanti eroi di fantasia, ma per la copia di bit dei loro clienti tradizionali?
L’abito entra nel metaverso virtuale e social
In verità, lo smottamento è partito: Gucci, Nike, Moncler, il gruppo italiano Otb (Diesel, Marni e altri) hanno tentato esperimenti o dedicato intere divisioni allo sviluppo di queste opportunità nel gaming. Tutti strumenti nemmeno troppo inediti, anzi dai parecchi punti in comune con i valori fondanti del fashion. «Sono usati per comunicare identità, personalità e gusto. Per allinearsi a una comunità o segnalare uno status», ragiona con The Good Life Italia Karinna Nobbs, cofondatrice dell’inglese The Dematerialised, start-up trasversale, calzante per questo momento di subbuglio, che ha curato le collezioni digitali di marchi affermati come Karl Lagerfeld e Rebecca Minkoff, e ha collaborato con quelli nati ad hoc per l’universo del web, inclusi i più celebri e apprezzati su scala globale, da Rtfkt a The Fabricant e Tribute Brand. Per loro, a prescindere dall’heritage o dalla data di nascita, con i cataloghi intangibili si spalancano occasioni di business concretissime: «Possono essere visti come una forma d’arte e intanto generare entrate e un’identità di marca. Le differenze sono che la moda digitale non ti tiene al caldo, non si consuma e può essere senza genere, senza età, senza dimensioni e non è vincolata da cose come la gravità o le strutture materiali», osserva Nobbs, che è un’assidua divulgatrice del tema ed è apparsa sulle principali pubblicazioni dedicate alla moda, da Wwd a Vogue fino a Bof (Business of Fashion).
Affari a parte, dunque, metaversi e smaterializzazioni trascinano con sé nessi etici e di contenuto. Il capo di bit trascende le liturgie dell’ago e del filo, spezza i canoni degli atelier, sfida le leggi della fisica: «Lo si rende credibile e desiderabile facendolo bene, rendendolo artigianato digitale», dice Nobbs. Poi aggiunge: «Si migliora e interrompe la produzione dell’abbigliamento che contribuisce negativamente agli eccessi di consumo». La moda virtuale è per sua natura a impatto ridotto perché si costruisce con mouse, tastiera, tavoletta grafica, non ricorre a materie prime, stabilimenti, logistica. Vive in una conferma d’acquisto via e-mail, non dentro una busta o un pacco recapitato da un corriere. L’altospendente Gen Z, la sustainable generation secondo la definizione che ne dà Forbes, ci sguazza e investe. Anche per l’accessibilità, la portata ecumenica della tendenza: finora i marchi hanno guadagnato da una fetta ridotta della popolazione ricca, non sono stati capaci di monetizzare dalle masse. Invece, questa è una via per democratizzare l’esperienza del lusso, per renderla accessibile. Anziché vendere un paio di sneaker per qualche centinaio di euro, sono in grado di piazzarne migliaia a un euro e pochi spiccioli. La somma fa la differenza. È un paradigma che tiene, mentre in parte salta introducendo nello scenario la variabile NFT, l’altra buzzword del momento. Per farla semplice, si tratta di certificati di proprietà digitale blindati, meccanismi raffinati e non aggirabili che certificano la titolarità esclusiva di un bene non fisico. Tanto più goloso quanto più è un esemplare unico o in edizione limitata.
Moda e NFT
L’esasperazione del concetto è che alcuni NFT sono diventati più desiderati, e perciò costosi, dei loro equivalenti tangibili. Come le MetaBirkins, ossequio e tributo alle celebri borse di Hermès, scambiate sul web per 40 000 € a pezzo. Una cifra superiore al cartellino dell’originale. Con un’ulteriore variabile da considerare: Mason Rothschild, l’artista che le ha generate, non è stato autorizzato dalla casa francese, che come tutti i marchi del lusso si trova davanti a sfide inedite per la difesa della proprietà intellettuale, giacché non ha modo di controllare l’intera produzione parallela che transita in rete. Ai Millennial scafati non sfuggirà il raffronto con il proliferare della pirateria online di musica e film, mentre le connessioni a internet erano sempre meglio performanti. Per chiudere il cerchio, il metaverso sarà il territorio ideale per sfoggiare questi NFT pagati a caro prezzo, facendone il pezzo forte del look dei propri avatar anziché custodirli gelosamente, e sterilmente, in qualche cassetto della memoria del proprio computer o smartphone. Che il fenomeno non si ridurrà a una bolla lo certificano schiere di aziende consolidate e start-up, da Roblox a The Sandbox, con il gigante Facebook in testa: per esplicitare le sue intenzioni ha mutato il proprio nome in Meta e sta spendendo cifre stellari – 10 mld di $ solo l’anno scorso – per convincerci a migrare verso i prossimi lidi dei social network.
Nell’attesa, per prepararci a visori e dintorni, ha stretto un’alleanza con Luxottica per creare i Ray-Ban Stories, linee di occhiali da vista e da sole con una coppia di videocamere incastonate nella montatura, dalle quali si scattano foto e registrano brevi video pronti da salvare e condividere. Per alcuni sono un’ulteriore minaccia alla tenuta della privacy, per altri un curioso e irresistibile accessorio di stile. In ogni caso, indicano la traiettoria, aiutano il reale ad affrancarsi dai suoi limiti e mettere radici nel virtuale. Anche con esperimenti da pionieri: durante l’ultima Milano Fashion Week Uomo, tra gli invitati alla sfilata di Prada c’era Gmoney, un investitore inserito dalla rivista Fortune nella lista dei 50 nomi più quotati nel mondo degli NFT. Sono loro i nuovi influencer?
Illustrazione: di Gianluca Folì
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