Glamping ad AlUla: un viaggio al termine del deserto
Da The Good Life Italia #39, in edicola dal 22 aprile 2022.
Quando riveli che stai partendo per l’Arabia Saudita, due sono le reazioni più comuni: o ti danno della pazza o ti invidiano. Ora che sono tornata, posso dire che sia i detrattori sia gli entusiasti hanno ragione. Pazza: perché il turismo, lì, è in evoluzione, ma ancora agli inizi. L’inglese lo parlano in pochi, le attese per i trasferimenti sono lunghe, l’organizzazione non sempre impeccabile. E poi le donne. Anche se il principe ereditario Mohammed bin Salmān ha dichiarato che l’abaya, il tradizionale abito nero che le copre da capo a piedi, non è più obbligatorio, quasi tutte ancora lo indossano: in aeroporto, per strada, nei luoghi pubblici. Da sotto le vesti vedi sbucare i loro occhi. Qualcuna è truccata, ti guarda; e ti chiedi cosa provi: invidia, disprezzo, complicità, nulla di tutto ciò o nulla di particolare. Non lo scoprirò, perché non avrò occasione di parlarci.
Difficile pensare a una vacanza ad AlUla con le amiche, e invece…
Ad AlUla, gli uomini camminano tra loro, in gruppo, lasciandosi le mogli alle spalle con i figli. In aeroporto gli ingressi sono distinti, al ristorante i tavoli. Difficile pensare a una vacanza qui con le amiche. Eppure, una volta atterrati, si può rimanere letteralmente stregati. Per esempio, quando davanti ai nostri occhi si spalancano le rovine di Hegra (in arabo Madāʾin Ṣāliḥ: “la città del profeta Salih”, detta anche al-Ḥijr, “luogo roccioso”), patrimonio dell’umanità dell’Unesco: la seconda città più importante, dopo la giordana Petra, dell’antica civiltà nabatea. Tra le sue mura, le sue torri, le cisterne e le tombe risalenti a un periodo che va dal primo millennio avanti Cristo al secondo dopo Cristo, si può capire come il deserto abbia stregato così tanti viaggiatori e avventurieri. Scriveva l’esploratore britannico Wilfred Thesiger nel suo diario di viaggio in Arabia Saudita del 1959: “Nessun uomo può vivere questa vita ed emergere immutato. Porterà, per quanto debole, l’impronta del deserto, il marchio che contraddistingue il nomade; e avrà dentro di sé il desiderio di tornare, debole o insistente secondo la sua natura. Perché questa terra crudele può lanciare un incantesimo che nessun clima temperato può eguagliare”.
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alcune installazioni del ciclo di mostre desert x sulla cultura del deserto e le rovine di Hegra, antica capitale dei Nabatei.
È solo dal 2019 che i turisti possono provare queste sensazioni
Porterà, per quanto debole, l’impronta del deserto, il marchio che contraddistingue il nomade; e avrà dentro di sé il desiderio di tornare, debole o insistente secondo la sua natura. Perché questa terra crudele può lanciare un incantesimo che nessun clima temperato può eguagliare”. Ma è solo dal 2019 che i turisti possono provare queste sensazioni. Il programma Vision 2030, presentato nel 2016 su iniziativa di Mohammed bin Salmān – oltre che principe ereditario, ministro della Difesa, capo del Consiglio per gli Affari economici e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – sta apportando importanti sviluppi in tutto il Paese. Obiettivo: trasformare l’Arabia Saudita in una potenza finanziaria regionale, aumentando la quota di entrate non petrolifere, che dovranno passare da circa il 16% al 50 % del Pil nazionale. Tra i target, oltre all’incremento dell’occupazione femminile nel settore in espansione delle piccole e medie imprese e del già fiorente turismo religioso della Mecca e di Medina, lo sviluppo di quello laico, con grandi aspettative proprio su AlUla, nel Nordovest, tra le città più antiche della penisola arabica.
Cosa fare e cosa vedere ad AlUla
Tra strade sterrate e edifici imponenti, si attraversa il sito tentacolare e polveroso di Hegra su una vecchia Land Rover, ammirando facciate di tombe decorate con rilievi di aquile, serpenti, meduse e scale che portano verso il paradiso. La maggior parte delle tombe apparteneva a donne, a indicare che nella società nabatea godevano di uno status elevato: un aspetto sottolineato dalla mia guida locale, anche lei donna. Sono quattro, al momento, i siti visitabili, di cui soltanto il 5% è stato portato alla luce dai recenti scavi. Come Petra, Hegra è una metropoli trasformata nei secoli in una necropoli con ben 111 tombe accuratamente scolpite: meno delle oltre 600 della capitale nabatea in Giordania, ma spesso in condizioni migliori, che consentono facilmente di immergersi con la fantasia nelle abitudini di questa civiltà perduta.
L’imponente Jabal Al Ahmar, nome che si riferisce alla tonalità rossa della roccia, da lontano sembra un enorme nido di api, con 18 tombe delle quali solo recentemente alcune sono state portate alla luce. Camminando lungo uno stretto passaggio tra le rocce, il Siq, si arriva al Diwan, un’ampia sala in cui quotidianamente si riunivano i capi del popolo nabateo per discutere di politica, partecipare a riunioni o banchetti. Gli ospiti si distendevano sulle panche di roccia scolpite lungo le pareti e conversavano o assistevano a spettacoli tra vassoi di carni arrostite, datteri, fichi, olive, uva, melograni. Ingegnosi, i Nabatei raccoglievano la rara acqua del deserto in grandi cisterne, ancora visibili, per utilizzarla durante la stagione più arida. In principio nomadi del deserto, con il passare dei secoli la loro civiltà divenne stanziale, assumendo il controllo delle rotte commerciali tra Oriente e Occidente delle spezie, degli incensi e degli aromi. Baluardo dell’Impero Romano contro le incursioni beduine, nel VII secolo furono conquistati dagli arabi quando erano una civiltà ormai decaduta che viveva di una povera agricoltura, tanto che la parola araba nabaṭī divenne sinonimo di “agricoltore”.
A 30 minuti di auto da Alula, a 45 dal sito archeologico di Hegra, le 96 ville dell’habitas Alula hotel sorge in un’antica oasi nei canyon della valle dell’ashar, coronato di rocce di arenaria e palmeti. Le ville s’affacciano su una grande piscina turchese, che rappresenta il cuore del glamping.
Glamping nel deserto, musica jazz e arte
È il pomeriggio tardo. Il nostro viaggio ci porta, però, verso altri scenari: all’Habitas AlUla Hotel, un glamping nel deserto di 96 ville coronato da rocce di arenaria e palmeti che si affaccia sul grande specchio d’acqua di una piscina color turchese. Dopo 45 minuti di auto nel deserto raggiungiamo questa antica oasi immersa nei canyon della Valle dell’Ashar. Mentre il disco infuocato del sole si spegne all’orizzonte, cedo alla stanchezza tra i cuscini ricamati e i tappeti sparsi sulla sabbia, dove ha inizio una sorta di rituale da Le mille e una notte grazie al quale prendo contatto con questa terra misteriosa, immobile e muta, mentre nel fuoco di fronte a noi aromi e incensi pungenti bruciano inondando le nostre narici. Man mano che cala il sole, la piscina s’illumina e una tenue musica jazz trasforma in modo un po’ straniante il ristorante in un club newyorkese, facendo da sfondo a una cena a base di polpo, hummus, frutto della passione e altri ingredienti provenienti dalle fattorie che circondano AlUla. Manca soltanto un po’ di alcol “come si deve” per completare l’incanto, cui supplisco senza particolare successo con le birre analcoliche locali, la cui schiuma evoca subito un altro sapore locale, ancora più tipico: il latte di cammello. Come in ogni rievocazione del mondo arabo che si rispetti, non mancano nel nostro ecoglamping esemplari del “corriere del deserto”: addirittura dai manti neri e bianchi, cosa che mi ha sorpreso non poco. Mi sfidano ad assaggiarne il nettare dolciastro. Ma con parsimonia: pare che i carovanieri ne abbiano presto scoperto le proprietà lassative.
Oltre la luminescente piscina, come un miraggio, svetta davanti a noi una donna blu oltremare collocata in cima a una roccia che sovrasta la valle. Si chiama Elyseria e rappresenta un’astronauta del XXV secolo, immaginata dall’artista Lita Albuquerque per ricordarci le stelle e le arti dell’astronomia e della navigazione. È una delle installazioni di AlUla del ciclo di mostre Desert X sulla cultura del deserto. Sei cerchi di grandezze diverse, in una conca, proiettano fasci di luce che fendono il buio. È l’onirica opera dell’artista saudita Manal AlDowayan, dal titolo Now You See Me, Now You Don’t-. Evoca i cerchi che un sasso produce in uno specchio d’acqua: l’oro del deserto. Concludiamo la serata dondolandoci su altalene giganti tra enormi pietre colorate, godendoci la vista delle le 320 sculture del Falling Stones Garden di Mohamed Ahmed Ibrahim. Prima che la notte e la stanchezza c’inghiotta. Arriva il giorno. E riprendiamo la strada verso l’aeroporto. Mentre ci allontaniamo, scorgo il più grande edificio a specchi del mondo: il Maraya Concert Hall, 9 740 mq di superfici per 26 m di altezza. Un ponte immateriale tra l’Arabia Felix del mito e quella del futuro, che comincia, forse, a schiudere le sue porte al mondo.
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