La rivoluzione longitudinale di Lisbona
Ha smesso di arrampicarsi per vicoletti scivolosi, pendenze sfinenti, scalinate tortuose. Trama meno attentati al fiato: ha imparato che c’è altro, oltre a guardare se stessa dall’alto, altera e vezzosa nello stesso attimo. La nuova Lisbona cresce e fiorisce lontana dal castello in cima, la cattedrale e le chiese in quota. Diserta i vicinati obliqui, i tram aggrappati ai binari e gonfi di turisti. Schiva i caffè legnosi e nostalgici, abitati un tempo da Pessoa e da Tabucchi, oggi dai fantasmi dei loro tormentati personaggi. La capitale del Portogallo ha salutato le sue latitudini per compiere una rivoluzione longitudinale, per abbracciare la sua anima più ovvia, quella che invece aveva lasciato appassire e degradare.
Si è sviluppata seguendo la lingua pianeggiante davanti al Tago, il fiume immane che sembra un mare, un concentrato d’acqua torbida più scura del blu, dalle onde crespe che agitano la sabbia come nel troppo irrequieto degli oceani. Gli storici quartieri Chiado e Bairro Alto fremono sempre d’avventura per occhi e muscoli, di paccottiglia per avventori incauti. Mentre Belém, al di qua dalla solita torre da cartolina e il Parque das Nações, dalla parte opposta, sono i cantieri delle costruzioni recenti, le sperimentazioni spinte della scena culturale, un futuro da inventare. Un fermento già smottamento a Marvila, che con la sua espansiva frenesia ha inglobato le aree confinanti di Beato e Xabregas.
Raggiungerla è semplice, a patto di salutare la centralissima Praça do Comércio, scacchiere denso di un’umanità lenta, adulata dal sole: basta prendere l’Avenida Infante Dom Henrique, la superstrada che segue e addomestica la costa, prima d’inoltrarsi a sinistra, nella carne della terra. Se Lisbona si nutre dei paragoni con San Francisco, con il ponte-clone dipinto di rosso e i ripetuti saliscendi ubriacanti, allora Marvila si sovrappone bene al quartiere Mission della città californiana per l’inesorabile gentrification, l’inconsueto che diventa un prontuario del trendy, il periferico in manovra verso l’essere desiderabile. «Marvila è una bomba che sta per esplodere, nel giro di due o tre anni sarà, per tutti, il luogo dei sogni. I prezzi delle case stanno lievitando, si costruiscono condomini con piscina, dalla parte opposta al Tago ci sono tante zone dove fare sport», conferma e sintetizza Adélia Carvalho, general manager del lussuoso hotel Valverde, testimone oculare di questa trasformazione. Lei, qui, è nata e cresciuta: «Ieri c’erano i giardini dove le famiglie si ritrovavano, i negozietti e i droghieri, i club sportivi. Adesso arrivano masse di artisti, chef, archistar. È piena di vuoti, di edifici in abbandono che si riempiranno». Non s’incontrano gli spacciatori sventolanti evasioni lisergiche, gli homeless sbandati come in America, ma nell’area della piazza principale si annusa un odore acre, pesante, il vapore di vecchi e gettonati orinatoi.
A Lisbona erano ovunque, a Marvila resistono imperturbabili di fronte a un cartello di un colosso di real estate che spazza via la memoria con i lavori in corso. A pochi metri, nell’ex sede dell’impero di vini e liquori Abel Pereira da Fonseca – il nome resta ancora impresso in semicerchio sulla facciata, sotto piccole, ridondanti sculture di grappoli d’uva –, c’è un ristorante italiano: il Refeitório do Senhor Abel, che secondo i locali serve una delle migliori pizze in città. Comprensibile la diffidenza, inevitabile entrarci per la suggestione di un’architettura fragile, struccata, splendida. Presto, per contrasto, in post-moderna compagnia: Renzo Piano ha disegnato un complesso che sorgerà poco distante, proprio davanti al fiume. La forma tenterà di diluire nella poesia l’inesorabile urgenza della bolla immobiliare: s’ispirerà, tondeggiante, alle vele delle barche che solcano il Tago; ci sarà, lo giura il progetto, un surplus di viali alberati e giardini nei paraggi.
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Il sito ufficiale pubblicizza gli ultimi appartamenti rimasti in vendita, gli altri sono andati sold-out. Un negozio di biciclette è stato già aperto e colleziona recensioni entusiastiche per ribadire la vocazione cool della zona. Un atteggiamento esasperato da Underdogs, galleria d’arte, “piattaforma culturale” (qualsiasi cosa significhi), sede di happening e mostre. Tra le ultime, conclusasi a metà ottobre, quella del designer nostrano Filippo Fiumani. Il titolo provocatorio, Cazzo!, era un invito colorito a gettare all’aria la pazienza per velocizzare il cambiamento.
Uno dei tram che fanno la spola risalendo le sette colline sulle quali si sviluppa il territorio della capitale Portoghese.
L' area del parque das nações, riqualificata in occasione dell’expo del 1998 e oggi in continuo sviluppo.
A Marvila e dintorni hanno preso l’invito molto alla lettera: l’Hub Criativo Beato, un centro d’innovazione per aziende, cova il vanto di essere il più grande incubatore per start-up al mondo. Il coronavirus ha smorzato l’entusiasmo, ma la promessa e gli spazi destinati all’impresa sono intatti. Come le tracce della street art che spuntano sulle pareti delle case, popolando il triste grigio del cemento di rane, scimmie, volpi, conigli e un altro mezzo zoo di animali variopinti, espressivi, estranianti, giganteschi. Tutti coerenti con gli allarmi ambientali dell’epoca, l’ossessione del figliol prodigo del genere, il Banksy portoghese: Artur Bordalo. Usa plastica e frammenti di spazzatura come materiali principali, per dimostrare che il rifiuto è un concetto relativo. Poi ecco Vhils, che anziché aggiungere, toglie. Scava le forme nelle mura dei palazzi, in un perenne atto di corrosivo minimalismo. Per un’opera nella capitale portoghese, ha collaborato con Shepard Fairey, diventato celebre per il manifesto “Hope” sotto il ritratto dell’ex presidente Barack Obama. Anche a Lisbona ha intravisto tracce di speranza.
Superata Marvila, si raggiunge il Parque das Nações, il nulla risorto con l’Expo del 1998 e da allora progredito fino a una specie di quasi Manhattan, senza grattacieli, con palazzi di vetro e alluminio che guardano arroganti verso l’orizzonte. C’è una stazione dei treni futuristica, torri con dentro alberghi e ristoranti panoramici sulla cima. C’è l’Oceanário, dedicato ai bestioni del mare, una funivia, che getta ombre sull’acqua del fiume. L’ex ponte più lungo d’Europa, scalzato dal tetto del podio da un cugino russo: strascichi di guerra fredda. Ancora, i padiglioni della fiera, il casinò, un’arena per accogliere un calendario fitto di concerti prima che il Covid ammutolisse il divertimento.
Un visitatore, trasportato bendato da un qualsiasi punto del mondo, non indovinerebbe mai di essere in Portogallo. Qui sembra essere una Lisbona vergine, il prototipo di una terra artificiale costruita da zero, non l’ultimo avamposto dell’Europa con il suo carico di storia. «È un cantiere con uno scopo. Presto, l’area sarà un tutt’uno con la città vecchia», racconta Luis, autista e residente, che prova a dare al disegno una qualche coerenza, sottrarlo alla condanna ragionevole della prima impressione, alla deriva facile nella distopia.
Parque das Nações piacerà a chi cerca il completamente altro o vuole una pausa dallo sguardo all’indietro che rimane imprescindibile altrove, nonostante i tentativi di confondere i piani e mescolare le epoche. Come a Santa Maria de Belém, dove poco distante dal Padrão dos descobrimentos, il monumento alle scoperte, il promemoria solido delle virtù euristiche degli esploratori portoghesi, è atterrata un’astronave. Si tratta del Maat, il nuovo museo che per metà recupera una centrale elettrica, per l’altra sfoggia un edificio bianco, incurvato e ondulato, a firma dallo studio Amanda Levete Architects. È stato pensato per attraversarlo, percorrerlo all’esterno, salirci sopra e immortalare da una prospettiva rialzata e sbilenca il Ponte 25 Aprile, sebbene l’oggetto del desiderio fotografico sia diventato quest’elemento extraterrestre sbucato nel paesaggio davanti al Tago, tra pescatori ottimisti e infaticabili maratoneti.
Quanto al nome Maat, lo si spiega allungando la sua abbreviazione: è dedicato ad arte, architettura, tecnologia. È un incrocio dichiarato d’immaginazione e creazione, che copre un’area di 38 000 metri quadrati e ha fatto innamorare turisti e cittadini: in un anno normale, pre-pandemico, ha attratto mezzo milione di visitatori. Tra gli ultimi appuntamenti, fino al prossimo febbraio, Day del tedesco Carsten Höller, che adopera la luce come elemento scultoreo; Vulnerable Beings, gli esseri vulnerabili, una riflessione sugli effetti del contagio, della malattia, tramite lezioni, proiezioni, musica e performance. Così il museo allarga il suo significato, mentre legge l’attualità.
Il maat, il nuovo museo dedicato all’arte, l’architettura e la tecnologia.
due luoghi simbolo di marvila, una delle zone più in fermento di lisbona: un grande incubatore dedicato alle start-up e la piazza principale del quartiere.
Alcuni esempi della street art locale, che riveste le mura dei palazzi, soprattutto nelle aree vicino Marvila.
Accanto a quella dei nuovi quartieri e indirizzi, è in corso una rivoluzione della mobilità. I monopattini sono ubiqui sul lungofiume e si sono già guadagnati la nomea di pericoli pubblici. Al di là dei tram e degli autobus, quasi tutti si spostano tramite le applicazioni Bolt e Uber, a bordo di automobili non guidate da autisti di professione, ma da semplici cittadini. Come avviene da un pezzo, guarda caso, a San Francisco. Le tariffe suonano irrisorie, meno di cinque euro per andare da un punto all’altro della città. E tra i dibattiti ricorrenti a bordo, puntuale litania, c’è la gestione delle mance: pare che alcune piattaforme siano più avide di altre nell’accaparrarsi percentuali dalle liberalità dei passeggeri.
Gli autisti tramano boicottaggi, suggeriscono alternative. Appelli inutili, perché travolti da un umore micragnoso, si finisce per non lasciare nemmeno un centesimo extra. Lisbona resta ancora una città in cui, ovunque, ci si può saziare senza spendere (quasi) nulla: meno di tre euro per un panino e una spremuta d’arancia preparati al momento in un bar, al punto da chiedere due volte il totale alla ragazza dietro il bancone per accertarsi che non si sia sbagliata con i conti. 80 centesimi per i pasteis de nata, tortine di sfoglia farcite di crema. Se fresche, superlative. Gli intenditori si assicurano non siano troppo bruciacchiate in superficie e le condiscono con qualche granello di cannella. Un euro tondo costa invece uno shot di ginjinha, il liquore di ciliegia servito in un bicchierino al cioccolato. Prima bere e poi mordere: non è mai troppo presto per cominciare. Dopo tutte le traiettorie fuori rotta, la caccia insistente all’inedito, è rassicurante accertarsi che la Lisbona latitudinale sia tutta lì, a crogiolarsi nei suoi fasti imperituri, a ripetere a memoria i soliti riti. Ci vogliono 45 minuti di cammino, dalla vetta del Parque Eduardo VII, per tagliare il centro storico, raggiungere Praça do Comércio, ricongiungersi con il fiume Tago, l’alfiere dello svecchiamento, il direttore d’orchestra della metamorfosi. Il consiglio è avviarsi al tramonto, tradire la linea retta, salire e ridiscendere, fermarsi in slarghi e piazzette, girare a destra o sinistra quando la penombra che accarezza le strade si rivela una calamita di deviazioni. La ricompensa sarà una consapevolezza: Lisbona non si è sbarazzata dei suoi stereotipi, a cominciare da quel decadentismo ubiquo che è un ritrovo nell’abbandono, la grazia dimessa di una ferita rattoppata alla meno peggio. Ama ancora immalinconire le notti con le note del fado, sciogliersi nella bugia liquida dell’ultimo bicchiere, preludio di molti dopo. A dispetto dell’ansia di diventare domani, continua a naufragare nel passato. Nonostante il tentativo d’inventarsi un futuro, rimane la capitale del suo ieri.