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Lisbona

Le tavole di Lisbona. Il nuovo corso della città portoghese

Potremmo dire che i ristoranti sono come gli adolescenti. A seconda delle occasioni, sono in grado di parlare in modo forbito con i genitori e in modo scurrile con i loro amici. A Lisbona è un po’ così. C’è una bella facciata, che nobilita uno scenario gastronomico perfetto, ingegnoso e locavoro. E poi c’è una realtà più grezza, ma non per questo meno gioiosa. Perché la capitale del Portogallo ha l’immenso vantaggio di offrire più copie di se stessa. Va ancora meglio da quando i valori tradizionali del vecchio mondo sono crollati un po’ ovunque. Lisbona dispone di sole, spiagge, esenzioni fiscali, oltre che di un’ondata rinfrescante di influenze New Age. Si accorre da ogni dove (Hong Kong, Los Angeles, Londra, Parigi…) da soli, in  gruppi o in comunità, anche con la Golden Visa per gentrificare il centro della città. Questi hippy chic dal colorito albicoccato rivendicano già, anche qui, la loro acqua Fiji, la dolce vita, lo spritz vespertino, il kombucha e le mandorle di Nolita a Manhattan… Risultato: tavoli e locali vibrano, fanno passi avanti, cambiano gioiosamente grazie a una nuova generazione scaltra, impertinente, lontana dal cliché del bacalhau (merluzzo) che vi secca la bocca e delle patate che stanno a guardia dell’angolo del piatto. D’altronde, è questione di assaporare l’ampiezza della città, da lì bisogna partire.

Questa domenica a pranzo, nel ristorante Galeto – avenida da República, nel Nord della città – la sala è piena. Sapientemente disperso in un labirinto di banconi, che ospitano i suoi 160 coperti, questo spazio concepito negli Anni 60 vibra di un sapore deciso. Il bacalhau si impone in cima alle classifiche. Quattro piccole patate punteggiano il piatto. Ovunque, single, famiglie, coppie uscite dal loro nido, vecchietti, solitari. Il servizio si snoda tra l’intreccio dei tavoli, si fa la scarpetta, si sollecitano i piatti. È Lisbona nella sua gioia di vivere, con le sue fisionomie paffute e al contempo sagge, perché qui – nota importante – si è latini. Non mediterranei. «Questo significa», esclama Carlos – goloso stando a quanto dice –, «che si è rispettosi, giusti, squadrati». Il giorno prima, in sua compagnia, abbiamo visitato un altro ristorante di Lisbona, il Magano, che aveva la stessa aria da prelibatezze, tavoli robusti pronti ad affrontare la tempesta, una cucina tutta d’un pezzo, senza sofismi, anch’essa rispettosa; i nomi dei piatti riprendono le ricette di un tempo per filo e per segno: agnello al pane, zuppa di polpo, bacalhau… 

santa clara 1728, sei suites in un palazzo del settecento ristrutturato.

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bancone in legno e sgabelli, aperto dalla mattina fino alle tre di notte: o galeto, dal 1967 bar e ristorante, un’istituzione.

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Ristorante Prado in una fabbrica dismessa recuperata

Nei ristoranti più contemporanei si suona invece un’altra musica. Lo si capisce subito dalla carta. Finiti i vocaboli di uso comune, lo chef si mette a martoriare i piatti. Li combina sperando di trovare una formula magica, su cui far scivolare il proprio ego. Il risultato è spesso molto buono, come da Prado, lodato da tutto il mondo. Meraviglie dai sapori acuti, centrati in pieno: asparagi, anguille, kumquat o ancora battuto di butternut, whey (è una proteina), burro di arachidi. Il delizioso paradosso dello chef António Galapito sta nel contrasto tra un tocco estremamente dolce e sapori forti, che non si fanno attendere. Questo è senz’altro dovuto al passaggio nei grandi ristoranti londinesi, alla pronuncia british (una delle caratteristiche di Lisbona), al lavoro sulle consistenze. La sala da Prado è fatta a sua immagine, colorata, dai soffitti alti, non troppo formale: «Sta dicendo che io faccio una cucina generosa? In realtà a me, semplicemente, piace cucinare».

Un po’ più in alto, al ritorno da un giro della città, c’è un’altra trattoria, la Taberna do Calhau. La clientela, ancora accaldata dalla salita per le viuzze, viene a confrontarsi con una cucina spontanea, tradizionale ma maledettamente attuale. Leopoldo Garcia Calhau, lo chef, un gigante riccio dal viso espressivo, arriva in ritardo. Un po’ scosso. E per una buona ragione, visto che scende da un taxi dopo aver avuto un incidente d’auto. Corre subito in cucina a preparare i suoi piatti forti, come la spalla di maiale con un pinzimonio alentejano (Alentejo è il nome di una regione del Portogallo). Non si sa se a ispirarlo è stato l’incidente, ma il piatto ha qualcosa a che fare con il concetto di collisione. Ci sono una quarantina di ingredienti, tra cui il sidro, la birra, il miele, il whisky, che ne fanno una bomba coronata da un’erba selvatica, la menta poleggio, una specie di menta poco diffusa che decora graziosamente il piatto. Ovunque dei rallentamenti, che seguono piacevolmente le ondate di clienti, come al Cafeh Tehran.

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il cafeh tehran, aperto da pooneh niakian

hall del Ritz che ospita il ristorante Cura

o magano, ristorante di quartiere

A proposito di malinconia

All’ora dell’aperitivo, le mamme (generalmente francofone) vengono a bere un bicchiere di rosato mentre la loro progenie, abbigliata con cura, va a divertirsi nel giardino adiacente: sontuose insalate, mousse di bietola, un po’ di tempura sotto il sole che al tramonto illumina incarnati radiosi. È anche questa Lisbona: le ondate di globalizzazione, le coppie miste, la rinascita New Age… In questa accelerazione calcolata, la scena gastronomica non sfugge alla mentalità da follower, che in questo senso riprende gli espedienti che riscuotono successo nelle città più famose. Spazio allora all’ondata peruviana, qui ripresa da uno chef dei reality che manda in onda un ceviche sopravvalutato e privo di qualsiasi tipo di interesse. La scena che si ispira alle notti di Lisbona può animarsi ovunque, senza orari precisi. La si può trovare in un angolo di strada, come Rua da Madalena, da Bifanas do Alfonso. Il menu, non certo complicato, è monosillabico: un piccolo panino fresco ancora tiepido con, nel mezzo, fettine di maiale. È buono, funzionale. Gliene si dà un morso come ha fatto il gruppo di turisti in coda poco prima. Meglio allora percorrere la città, andare controcorrente, camminare fino allo sfinimento. Fermarsi davanti a un caffè che vi offra un po’ d’ombra o un gelato (chez Nannarella). Tentare di prendere un tavolo in uno degli indirizzi più spumeggianti: Taberna da Rua das Flores, Da Noi… Godetevi il mattino presto, quando tutto è fresco: i pastéis de nata – queste piccole sfoglie alla vaniglia cremosa –, le viette e i viali. Godetevi l’ampiezza di una città pazza di ciò che è andata a cercare altrove, quel famoso merluzzo pescato all’altro capo del mondo: Terranova. Conoscete dei Paesi che si procacciano anche il loro pane quotidiano? Da qui deriva quella famosa saudade nutrita di assenza, di allontanamento e, forse, di quelli che non tornano mai. Andate a cercare nei piatti questo velo esotico che accompagna lo sguardo dei lisbonesi. Porre la questione vi rimanda alle vostre stesse domande. «C’è della saudade nella mia cucina?», s’interroga António Galapito, lo chef del Prado. «No! Io sarei piuttosto primitivo, non romantico. O forse», finisce per concedere, «potrebbero essere le verdure, i frutti che desideriamo e che ci mancano». La stagione degli asparagi è finita e subito proviamo malinconia. Quella di una futura assenza, ma anche quell’esilio del tempo, il turbamento che i viaggi portano con sé. Quelli che facevano i portoghesi verso il Giappone. Ne hanno importato le tempura, tornando con lo yuzu. Ora tocca al Portogallo. Forse le lingue sembrano mescolarsi, «obrigado / arigato». È anche questa la nuova Lisbona, che beneficia della sua lentezza. Mentre la vicina Spagna si dedicava massivamente alla coltura intensiva a colpi di pesticidi, il Portogallo vedeva, un po’ disilluso, esplodere questo Paese troppo prodigo, insolente della sua libertà ritrovata. Oggi, la tavola portoghese è naturalmente locavora, ecosostenibile. Il suo ritardo diventa una virtù. Basta visitare l’impressionante Ritz, costruito sotto la dittatura di Salazar, che oggi splende di modernità con i suoi spazi maestosi, le sue lampade Anni 50, le sue sale banchetti. Può anche mettere in scena una modernità diligente come nel suo ristorante Cura. Sul tetto dell’hotel, si è anche potuta costruire una pista di atletica il cui blu dialoga con l’azzurro del cielo. È un po’ questo Lisbona, una traccia nuova, che si è sbarazzata del tempo.

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