«Le Champagne c’est moi!» a dirlo è lo svedese Richard Juhlin
Se non credete nei numeri, allora Richard Juhlin non vi piacerà. Con attitudine da “nerd” prende nota di ogni bottiglia di Champagne che degusta ed è arrivato a 14 620 (ma il contatore avrà nel frattempo lavorato ancora). Dico: quattordicimilaseicentoventi. Come se dal marzo 1983 ne avesse stappata una differente ogni singolo giorno. Ma all’epoca Juhlin, svedese classe 1962, era un giovane professore di ginnastica e calciatore e le bolle francesi erano «solo una passione a cui dedicavo tutto il mio tempo libero. Studiavo, leggevo e bevevo. Lo Champagne riempiva tutti i miei sogni». Richard è un sognatore che ce l’ha fatta, oggi è considerato il massimo esperto mondiale di Champagne, vino a cui ha dedicato l’opera definitiva, Champagne Magnum Opus. È un uomo sorridente e visibilmente soddisfatto, viene quasi la tentazione di spendere la parola: felice. Uno per cui il calice è sempre mezzo pieno e di roba parecchio buona. Si capisce che a 61 anni guarda al futuro come a una bottiglia ancora da stappare. Mi parla in collegamento video da Stoccolma, è in giardino, baciato dal temerario sole scandinavo di aprile. Cita i suoi numeri intimidatori e quel certo “dono speciale” di cui dispone, l’olfatto con cui sbigottì il mondo quando, nel 2003, a Parigi, riconobbe in una degustazione alla cieca ben 43 Champagne su 50 (il secondo ne imbroccò appena quattro), organo di senso che per lui è una «sorta di memoria fotografica, grazie alla quale riesco a ricordare gli odori meglio di chiunque altro. L’olfatto è importantissimo, tu trovi il tuo partner perfetto con l’olfatto, l’odore è il 90% della ragione per cui gli animali mangiano qualcosa oppure no». Juhlin arrivò a inventarsi, diversi anni fa, una serie televisiva in Norvegia che lui ora definisce un primo tentativo di smellevision, di “odorevisione”, in cui provò a far conoscere agli spettatori l’importanza del naso, di come esso influenzi la nostra vita e di come la nostra vita lo influenzi, perché l’olfatto cambia se sei incinta, se sei arrabbiato, se vivi in una metropoli o sei nella giungla.
Ritratto di Richard Juhlin
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Un plotone di bottiglie che a metterle stese una dopo l’altra farebbero quasi cinque chilometri (cinque chilometri di Champagne, un sogno!), un naso magico. E poi? E poi Richard ha sempre pensato al più blasonato dei vini “out of the box”, fuori dagli schemi. E per i francesi non deve essere stato facile accettare che arrivasse uno svedese a pasturare con la intoccabile liturgia delle bolle nobili. Ma una missione è una missione, che diamine. Richard pensava incessantemente a come lo Zeitgeist influenzasse l’esperienza della bevuta: «Ho preso a studiare come la situazione, l’ambiente circostante, contribuisca a cambiare il modo in cui tu apprezzi un grande vino. Metti un nordico come me: sono in un posto bellissimo come Santorini, ho davanti un panorama perfetto, godo del cibo locale, ho i miei migliori amici, l’armonia, le stelle, bevo un vino locale e dico: ah, è fantastico! Compro una bottiglia di quel vino, lo porto a casa, lo bevo in una buia serata dell’inverno scandinavo e penso: fa schifo! Il piacere di un vino è strettamente connesso a come, dove e con chi lo bevi». Andate a dirlo a coloro che danno i voti alle etichette degustandole in sale illuminate dal neon, davanti un grissino e sei bicchieri standard da svuotare il più rapidamente possibile, in un silenzio operoso rotto solo dal tintinnio del vetro e dalle matite che scorrono sui taccuini.
Era il tempo per un nuovo approccio al momento della bevuta. Convinto che «ogni Champagne dà il meglio di sé quel giorno, quell’anno, con l’odore che c’è nell’aria, con certe compagnie», Juhlin ha inventato la pratica dello “Champagne Hiking”, l’escursionismo della bolla, che lui spiega così: «Prendi la bottiglia giusta, la porti fuori in compagnia della persona giusta, cerchi un posto isolato, tranquillo, e la bevi in combinazione con la natura». Quando gli chiedo quale sia stata l’esperienza mistica, la sua epifania, Richard prende a raccontare di quella volta in Patagonia lui e il suo fotografo, un viaggio pieno di contrattempi, faticoso, lunghissimo, con spiacevoli incontri con una specie di gatto andino che non deve aver fatto le fusa ai malcapitati. «Poi siamo arrivati al nostro cottage in questo parco naturale tra il Cile e l’Argentina, c’erano le montagne più belle che io abbia visto, la sera abbiamo aperto la bottiglia che c’eravamo portati, un Bollinger Vieilles Vignes Francaises, se ne fanno solo 2 500 bottiglie all’anno e noi ne avevamo due, e l’incontro tra la maestà della natura e quella dello Champagne è stato esaltante. Ci siamo detti: wow! Guarda qui! Guarda come il mondo può essere bello! Siamo stati veramente privilegiati a vivere quel momento».
Per scrivere il libro Champagne Hiking, uscito nel 2017, Richard di queste scampagnate esotiche ne ha fatte 120 in tutto il mondo, alle Isole Lofoten, in Mongolia, a Suriname, a Delap-Uliga-Djarrit, la capitale delle Isole Marshall. Non proprio il parco sotto casa. Così Richard è diventato famoso come lo specialista di “tutto quello che c’è attorno” a questo vino “che ha il potere di adattarsi come un camaleonte alle differenti situazioni”. Per essere così attenti allo storyboard dello Champagne bisogna però conoscerlo a menadito. Richard ha assaggiato quasi tutte le annate disponibili delle principali maison e anche della maggior parte delle più piccole. «Certo, ce ne sono anche alcuni che non ho mai degustato, ma se penso alle annate con i migliori punteggi dei produttori più famosi, l’unico che potrei essermi perso è il 1928 di Salon. Mi hanno promesso che se un giorno lo apriranno mi faranno una chiamata. Diciamo che spero sempre che il mio telefono squilli». Il metodo Juhlin è rigoroso: degusta un paio di volte a settimana e beve una volta («in una settimana media invernale, con la bella stagione lo faccio più spesso»), il resto del tempo lo passa a parlare, a scrivere, a raccontare. «Come ogni uomo che viene dallo sport io penso che l’allenamento sia importante ma anche il riposo. Non bisogna degustare troppo spesso o bere troppo frequentemente. Mi sono accorto che sono un degustatore migliore quando sono assetato. Ora per esempio sono 11 giorni che non tocco nessun tipo di vino, una cosa per me insolita e faticosa, ma ho avuto anche periodi più lunghi di astinenza. Del resto mi aspetta un viaggio con mio figlio a Londra a visitare ristoranti, poi cinque giorni nella Champagne a degustare intensamente e mi serviva una pausa per ricaricarmi, non tanto per il corpo ma per il cervello». Richard è convinto che «lo Champagne non sia mai stato interessante come adesso» grazie alla dialettica tra i due mondi che lo abitano, quello dei grandi brand e quello dei piccoli vigneron: «Un tempo io ero considerato un nemico delle grandi maison, perché ero l’unico che andava a scovare i piccoli produttori sconosciuti. Questi sono cresciuti al punto da sfiorare la qualità dei marchi più celebri, ma a prezzi assai inferiori. L’asticella si è alzata, c’è stata la risposta delle maison e ora va detto che, se prescindiamo dal prezzo e pensiamo solo alla qualità pura, i migliori Champagne nove volte su dieci provengono dai grandi marchi».
La consapevolezza del consumatore, che premia la centralità della natura e delle scelte ecologiche dei produttori, autorizza il pensiero di molti per cui «i piccoli coltivatori siano diventati migliori delle grandi case. Ma questo non è vero. Ci sono solo pochi di essi che possono davvero competere con i big». Lo Champagne più vecchio che Richard abbia mai degustato «è il 1825 di Perrier-Jouet: l’ho assaggiato una decina di anni fa ed era ancora buono, vivo, carnoso, certo non perfetto, il 1874 e il 1911 erano migliori». Ma se il migliore Champagne è sempre il prossimo, ad attendere Richard c’è un Cristal 2015 di Louis Roederer appena ricevuto e una degustazione «sotto la Torre Eiffel, vado a Parigi per girare un piccolo film ma non so quale Champagne berremo, è un segreto custodito dai miei amici». Ad averne di amici così.