La costruzione della luce di Sebastiano Maielli
La sola cosa non scolpita nella luce pura, alla fine, sarebbe stata “una pelliccia di scimmia sintetica”. La definizione è di Nanda Vigo, regina del design italiano, amica carissima di Remo Brindisi e progettista della sua casa a Lido di Spina, sull’Adriatico, nel Comune di Comacchio. Tutto iniziò durante la Seconda guerra mondiale. Brindisi è un giovane ufficiale di complemento abruzzese di stanza tra Ferrara e Casal Borsetti, risparmiato alla crudezza della trincea dalla sua abilità pittorica, appresa grazie a una borsa di studio alla Libera Scuola di Nudo dell’Accademia e alla Scuola del Libro di Urbino, grazie alle quali era stato assegnato al genio militare. Al suo fianco, un ancor più giovane Marcello Mastroianni, non ancora divo, con cui scambia memorabili partite a carte distraendosi dall’orrore del conflitto. Il Lido di Spina, allora, era un’immenso litorale selvaggio disabitato, chilometri quadrati di pineta e spiaggia finissima sfumanti nell’entroterra acquitrinoso, pescosissimo, ma anticamente malsano, delle Valli di Comacchio, dove genti poverissime sopravvivevano pescando anguille esportate in tutto il mondo, che sarebbero state rese celebri nel 1954 da Sophia Loren nel film La donna del fiume di Mario Soldati. Terminata la guerra, Brindisi, che aveva tenuto la sua prima personale già nel 1940, a Roma, si trasferisce a Milano, dove aderisce al Gruppo Linea di intellettuali e artisti che si dissociano dalla polemica tra realisti e astrattisti, scegliendo una posizione di totale autonomia.
©Sebastiano Maielli
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E a Milano conosce e diventa amico di Nanda. Alla quale avrebbe chiesto di progettare proprio lì, nella pineta del Lido di Spina, a pochi metri dal mare, il suo Museo Sperimentale, oggi Casa Museo Remo Brindisi. Sperimentale, perché aperto alla sua collezione di opere in continuo divenire. Ma anche perché, al medesimo tempo, abitazione per sé e per i suoi familiari e amici. E salotto per ogni genere d’avanguardie artistiche, che a partire dagli Anni 70 ne avrebbero animato le stanze e affollato di capolavori le pareti. Parola d’ordine: integrazione. In un iperspazio utopico dal candore geometrico, il cui cuore cilindrico è protetto da un guscio parallelepipedo affacciato su una giardino-galleria che guarda il mare, il cui progetto definitivo non vide mai la luce. Integrare: ovvero, comporre e contaminare creativamente cultura e tecnologia, arte e architettura, artigianato e industria, utopia e realtà. Concetti oggi diventati luoghi comuni, una retorica al servizio del marketing, ma che allora – ereditando la lezione del Bauhaus – erano ancora dirompenti. «E nulla di più dirompente è ancora oggi visitare le sue stanze», commenta Sebastiano Maielli, ferrarese, autore del reportage di queste pagine. Un cortocircuito nel cortocircuito, il primo voluto da Brindisi, il secondo subìto. Perché, nel frattempo, al contrasto tra la selvatichezza dell’ambiente naturale e l’artificialità della villa, s’è aggiunto il contrasto tra la bellezza visionaria di quest’ultima e l’ingombrante banalità degli alberghi, delle residenze e dei locali turistici che negli anni hanno popolato il litorale su impulso di capitali Montedison e Mediobanca. «L’infusione di luce operata da Nanda Vigo si percepisce subito all’ingresso dell’edificio: un gioiello rarissimo, che meriterebbe maggiore fama», spiega Maielli, che nel suo lavoro ha inteso rendere più d’ogni cosa proprio l’iridescenza del luogo. Entrando, per primo ad apparire, è un arengo circolare dominato dallo spettacolare corrimano in acciaio elicoidale che risale, come se fosse vivo, la scalinata che porta al piano superiore, destinato alle camere.
©Sebastiano Maielli
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Il “grande cilindro” al piano terra, infatti, fin da principio fu destinato alla funzione di conversation pool, sotto la suggestione di alcuni tra i capolavori della collezione di Brindisi. Anzitutto, il grande “graffito” di Lucio Fontana dal titolo Cavallo, che ricopre la parete sinistra dell’ingresso, e la scultura Donna al sole di Arturo Martini, sul bordo di una vasca-erbario sul lato destro dell’atrio, mentre sull’alto zoccolo che corre sotto il pannello di Fontana sfilano lavori di Riccardo Dalisi, Hsiao Chin, Bruno Munari, Emilio Scanavino… Dominano, su tutto, l’imponente opera cinetica di Carmelo Cappello, ai piedi della scala, e gli alberi in metacrilato di Gino Marotta, integrate nell’architettura in omaggio al principio compositivo che guidò la Vigo, che alle vetrate cede il ruolo iridescente di “cronotopi” e “stimolatori di spazio”, secondo la sua stessa definizione. Dalla conversation pool si passa senza soluzione di continuità in quella che sarebbe dovuta essere la sala da pranzo, divenuta invece uno spazio espositivo avvolto in un teatro di specchi interrotto soltanto da una grande tela di Brindisi, La giacca, tra i “quadroni” dedicati a temi sociali come Progressista contro Conservatore e le serie dedicate alla Storia del fascismo e alla Resistenza. Il Maestro elesse infatti a luogo della convivialità la “tavernetta” interrata, disseminata anch’essa di opere e arredi di design. Angusti, a paragone dell’iperspazialità radiosa del “grande cilindro”, gli ambienti più intimi della casa.
©Sebastiano Maielli
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Una sorta di cella monacale la stanza di Brindisi, quasi interamente occupata dal letto matrimoniale in legno intagliato dal padre artigiano; sopra, il suo studio, ricolmo oggi come allora di vernici, grandi tele, cavalletti, opere. Incarnano l’ideale aperto e “collettivista” del Maestro, che della propria casa ha fatto un esperimento sociale aperto alla condivisione e della propria arte una ricerca sovente solitaria, in ogni caso austera. Al secondo piano, ci s’addentra nelle altre camere della casa e nel White Living Room, il salotto di rappresentanza, sovrabbondante come i corridoi di cinta di opere di Mario Sironi, Cesare Andreoni, Virgilio Guidi, Fausto Melotti, fino al plastico originale della grande installazione del Parco Sempione di Milano I bagni misteriosi, realizzata da Giorgio De Chirico in occasione della Triennale di Milano del 1973, presieduta da Brindisi. Ogni luce, quando è satura, aspira prima o poi alla quiete dell’ombra. E ciò che era al principio, ritorna alla fine del cammino. È la “camera prototipo”, manifesto concreto della casa. Bianca e nera, dominata da Scrittura cancellata per una camera da letto di Emilio Isgrò, che silenziano i versi latini delle odi di Orazio. Il bianco e il nero, la luce e l’oscurità, il silenzio e la poesia trovano qui composizione in un’unica visione, sospesa tra misticismo e voluttà, spirito e materia, ragione e istinto, nel letto matrimoniale fuliginoso e pelosissimo al centro della stanza, ibrido di Pop Art e Art Nouveau. La “scimmia sintetica” è ora divenuta una venere in pelliccia.