Il design che recita, il grande cinema e l’arte del decoro
Certo, è lapalissiano, anzi, di un’ovvietà sconcertante, ma ribadirlo fa gioco: il libro lo leggi, la musica la ascolti, il film lo guardi; quindi ogni cosa che vedi lì dentro non può e non deve esserci messa a caso, perché lì dentro tutto concorre a identificare, a contestualizzare, insomma a raccontare. Prendi un romanzo incentrato su un tizio ricco che abita in un grande appartamento moderno: lo leggiamo – il romanzo – e dove non arriva lo scrittore arriviamo noi, finendo per arredare la casa a modo nostro, con la nostra immaginazione. Alle prese con un film, invece, tutto deve essere apparecchiato e servito allo spettatore, e quindi – s’interroga il regista con tutto il suo staff – quali divani ci mettiamo? e gli altri mobili? e che aspetto ha il palazzo dove vive il tizio ricco? Ragionare sulle relazioni tra cinema e design potrebbe essere una di quelle imprese che sai dove inizi ma non dove finisca e soprattutto quando ne avrai abbastanza, tale è la mole di materiali e di spunti a disposizione. Il tema dello storytelling applicato all’immaginario cinematografico era però troppo gustoso per essere messo da parte, in questo numero dedicato al “fare storie”; perciò lo abbiamo approcciato così, con una panoramica liofilizzata e assai selettiva, attraverso una dozzina di tappe che The Good Life ha deciso di coprire in compagnia di Davide Rapp – architetto di formazione e videomaker, cinefilo e regista – che al Politecnico di Milano tiene un corso proprio su questi temi. Per inquadrarlo, estraiamo dal curriculum di Rapp un paio di lavori. Nel 2014 ha partecipato alla Biennale Architettura di Venezia con Elements, film di montaggio che descriveva gli elementi fondamentali della disciplina attraverso una sequenza di oltre 500 estratti cinematografici. Sempre in Laguna, al Festival del Cinema del 2021, la presenza nel concorso della sezione “Venice VR Expanded” con Montegelato, progetto in realtà virtuale dedicato alle Cascate di Montegelato (in provincia di Roma), scenario di oltre 180 film italiani dal 1950 a oggi. Tra i suoi ultimi titoli: Il Corridoio Rosso, del 2023, ispirato dal corridoio della casa di Giovanni Agosti (storico dell’arte e critico milanese), un luogo saturo di libri, quadri e oggetti che contiene – e nasconde – indizi, tracce e ricordi di una vita intera.
prevalenza del bianco, televisiore brionvega e quadri simil-rothko in gruppo di famiglia in un interno (1974)
il laboratorio che ricorda la superarchitettura e gli istogrammi di superstudio in toys (1992) di barry levinson
ancora il bianco, questa volta come colore dell’infinito digitale e delle potenzialità della “matrice” in matrix (1999), firmato wachowskis.
Tra Los Angeles e New York
Ciak, partiamo da Blade Runner di Ridley Scott, un “culto” del 1982: «Qui, oggetti di design, architettura organica e materiali di scena si fondono per definire un mondo futuristico e distopico, lontano nel tempo ma che ci appare comunque familiare», spiega Rapp. Una familiarità perseguita per “agganciare” lo spettatore e accorciare la distanza che separa il futuro immaginato dal nostro presente vissuto: «Syd Mead (il celebre conceptual artist a cui si devono le ambientazioni di molti film, scomparso nel 2019, ndr) compone un affresco che combina le visioni urbane di Fritz Lang in Metropolis (1927) con l’estetica dell’Art Nouveau, mentre l’appartamento di Rick Deckard, il cacciatore di replicanti interpretato da Harrison Ford, è un remix architettonico in cui s’intravedono i blocchi in calcestruzzo prefabbricato della Ennis House di Frank Lloyd Wright (1924)». È una rete di connessioni e di riconoscimenti in cui individuiamo anche il Bradbury Building, la sedia Argyle di Charles Rennie Mackintosh e il bicchiere squadrato ed elegante da cui Deckard beve il suo whiskey, quel Cibi che Cini Boeri realizzò nel 1973 per l’azienda toscana Arnolfo di Cambio: «un dettaglio minuto – eppure significativo – di un collage coerente, complesso e inedito». Dalla cupezza che incombe sul focolare domestico dell’eroe di Blade Runner alle mille luci newyorkesi catturate da American Psycho (2000) di Mary Harron, ispirato all’omonimo romanzo di Bret Easton Ellis: «L’appartamento asettico e lussuoso dello yuppie Patrick Bateman (Christian Bale) riflette la sua insana ossessione per la perfezione e il controllo», nota Rapp. È un ambiente immacolato, con i “pezzi” giusti al posto giusto: proprio quelli che ti aspetteresti di trovare nelle disponibilità di un personaggio del genere, totalmente votato all’apparenza e alla riconoscibilità sociale. «La genericità di gusto e di scelte è specchio di un’aridità profonda» e la presenza di quel bianco, di quel design e di quegli oggetti tecnologici ci raccontano molto del personaggio senza bisogno di “spiegarlo”: per lui conta solo vivere così, tra una poltrona Barcelona di Mies van Der Rohe con il suo poggiapiedi, una sedia Hill House di Charles Mackintosh e l’Alanda Coffee Table di Paolo Piv.
Bambole e altri giochi
Fuggendo dalle perversioni di un serial killer troviamo rifugio nelle zuccherose atmosfere di Barbie , che Greta Gerwig ha girato nel 2023 «concretizzando il sogno febbrile di milioni di (ex) bambini: vivere in una casa delle bambole. Design del giocattolo (perché i giocattoli e il loro mondo sono anche oggetti di design, nonostante lo si dimentichi sempre) e stile Mid-Century si fondono in una dimensione astratta, giocosa e meta-narrativa. Le Dreamhouse della Mattel evocano le architetture di Richard Neutra (come la Kaufmann House a Palm Springs), accogliendo anche le sedie Tulip di Eero Saarinen, ovviamente rosa». Si tratta di ambientazioni sognanti, proprie di un’utopia realizzata, che ci indirizzano verso un altro film che qui vogliamo ricordare: Her (2013) di Spike Jonze, storia di solitudini e amori impalpabili che si staglia su un contesto metropolitano futuribile dove splende il sole e tutti paiono appagati. «È una riflessione sulla relazione tra umano e digitale. In un mondo in cui l’interazione è rarefatta e la tecnologia ubiqua, gli interni sono caldi e invitanti, ma anche asettici e “vuoti”. Il sogno domestico e urbano sembra esaudito, ma poi si finisce per inseguire la felicità dentro un device». Di dimensioni “altre” è manifesto Matrix (1999), che ricordiamo per un ambiente ben preciso: «Il confine realtà e virtualità si manifesta in uno spazio bianco, fluido e indefinito, in cui oggetti e ambienti possono materializzarsi con un click. Nella dimensione astratta e digitale della “matrice”, introdotta da Morpheus/Laurence Fishburne a Neo/Keanu Reeves, una coppia di poltrone Chesterfield e un tubo catodico sono gli elementi base per definire un contesto domestico». Un processo di sottrazione che può richiamare alla mente Dogville (Lars von Trier, 2003), in cui bastano il disegno delle strade tracciato sulla scena e pochi oggetti-chiave di uso comune a evocare l’insediamento immaginario del Colorado in cui si svolge la storia: un set d’impianto teatrale, astratto al massimo, che sfida le convenzioni del cinema tradizionale. È la scenografia che rivela se stessa, come capita ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou di Wes Anderson (2004), dove «esploriamo gli spazi della nave Belafonte (privata di una fiancata e mostrata in sezione) come un diorama, in cui ogni sezione rappresenta simbolicamente le relazioni tra i personaggi, le loro emozioni, le loro aspirazioni». Tanta fantasia anche in Toys (1992) diretto da Barry Levinson, ambientato in una fabbrica di giocattoli «che riecheggia l’architettura postmoderna di Michael Graves, con interni e arredi ispirati alla produzione del Gruppo Memphis. Le scenografie (di Ferdinando Scarfiotti) proiettano la vicenda in una dimensione surreale, policroma e onirica, ispirata ai quadri di Magritte, Depero ed Escher. In una delle sequenze più sorprendenti del film, vediamo un laboratorio definito in ogni superficie da un reticolo quadrato che ricorda la Superarchitettura e gli Istogrammi di Superstudio».
la scenografia di dogville (Lars von trier, 2003), dove le strade sono linee tracciate sul palco, gli edifici non hanno pareti e pochi oggetti indicano la loro destinazione d’uso;
il set de le avventure acquatiche di steve zissou di wes anderson (2004), con la nave “belafonte” privata di una fiancata e mostrata in sezione
le ambientazioni cupe di blade runner (1982) di ridley scott.
Vedi alla voce “classici”
Ora facciamo un salto indietro nel tempo per accennare a due titoli fondamentali. Design e architettura sono protagonisti assoluti in Playtime (1967) di Jacques Tati, implacabile e ironico critico della modernità occidentale, così omologante nelle forme e nelle abitudini: «Intrappolato in ambienti dominati dalla funzionalità e dall’efficienza, Monsieur Hulot rappresenta la naturale resistenza all’assurdità della vita contemporanea, disorientata dalle trasparenze e dalla genericità degli interni tutti uguali tra loro». Arrivando in Italia, eccoci al cospetto di quel Gruppo di famiglia in un interno che Luchino Visconti fece uscire nel 1974: «L’appartamento sontuoso e opprimente del Professore e quello arioso e minimalista della marchesa Bianca Brumonti incarnano l’eterno conflitto tra tradizione e novità. L’appartamento di sopra viene affittato e sventrato, le carte da parati lasciano spazio al bianco, con i quadri di Rothko e il radiofonografo di Achille e Pier Giacomo Castiglioni (1965) in evidenza». Tra i registi italiani sensibili al tema in oggetto, d’obbligo la menzione per Luca Guadagnino e il suo senso estetico, le ambientazioni sublimi, il gusto del dettaglio. In Io sono l’amore, del 2009, «la milanese Villa Necchi Campiglio di Piero Portaluppi diventa la dimora della famiglia di industriali Recchi: gli spazi luminosi e perfetti della casa definiscono una prigione emotiva da cui scappare».
a lampada arco dei fratelli castiglioni e le aluminium chairs di charles e ray eames in io sono l’amore (2009) di luca guadagnino;
il salotto con le poltrone barcelona di american psycho, diretto da mary harron nel 2000
le tonalità calde e accoglienti di her (2013) di spike jonze, storia di solitudini e amori impalpabili dove si rincorre la felicità in un device elettronico
La Storia in un soggiorno
Per chiudere, una coppia di nuovissime pellicole. La prima (uscita il 9 gennaio) è Here di Robert Zemeckis, che riunisce la squadra di Forrest Gump (lo sceneggiatore Eric Roth e gli attori Tom Hanks e Robin Wright) per condurre quella che per buona parte del film si configura come un’indagine attorno al soggiorno di una tipica abitazione statunitense: una living room che vediamo trasformarsi passando di proprietario in proprietario (tra cui anche l’inventore della poltrona reclinabile La-Z-Boy), inquadrata da un unico punto fisso e con lo stesso grandangolo. The Brutalist di Brady Corbet esce tra pochi giorni; al centro, l’architetto ebreo László Tóth, emigrato negli Stati Uniti negli Anni 40: «Un nuovo studio-biblioteca arioso, luminoso e funzionale: il progetto che László (Adrien Brody) realizza per Van Buren (Guy Pierce) riassume i compromessi e le tensioni tipiche del rapporto progettista/cliente. The Brutalist (che culmina in un atto finale ambientato nel corso della prima Biennale di Architettura di Venezia del 1980 – La presenza del passato – curata da Paolo Portoghesi) sarà un “must” per tutti gli architetti». Non solo per loro, comunque, visto che il film è risultato tra i più acclamati all’ultima Mostra di Venezia, dove si è aggiudicato il Leone d’Argento per la migliore regia.