1.000 miliardi di alberi entro il 2030: greenwashing o realtà?
La forestazione è una lotteria: i potenti del mondo si giocano i numeri, nella speranza di vincere il riscaldamento globale e i cuori riscaldati da Greta Thunberg. Al G20 di Roma, lo scorso ottobre, le 20 nazioni più industrializzate del mondo si sono accordate per piantare 1 000 mld di alberi entro il 2030, raccogliendo la sfida Trillion Trees lanciata nel 2020 dal World Economic Forum per sostenere il Decennio Onu dedicato al ripristino dell’ecosistema. Alla Cop26 di Glasgow, a novembre, oltre 100 Stati hanno firmato la “Dichiarazione sulle foreste e l’uso dei suoli” per ripristinare le foreste entro il 2030 e ridurre a zero le emissioni di CO2 entro il 2060.
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1.000 miliardi di alberi entro il 2030: greenwashing o realtà?
Per ogni tonnellata di gas serra, dovremmo così rimuoverne altrettanta. “Dobbiamo fermare la devastazione delle foreste”, ha tuonato il premier della Gran Bretagna Boris Johnson. Il presidente americano Joe Biden ha stanziato 9 mld di $ entro il 2030. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha impegnato l’Unione a destinare 1 mld di € a 3 mld di alberi nel Vecchio Continente entro la stessa data. E il nostro ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, le ha fatto eco con il progetto per la tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano, tra i più importanti obiettivi del Piano di Ripresa e Resilienza (Pnrr): circa 330 mln di € per 6,6 mln di alberi in 14 città metropolitane.
Gli alberi abbattuti ogni anno nel mondo, in effetti, sono 15,3 mld, contro poche decine di milioni piantate nello stesso arco di tempo. Come non gioire se piantare può contribuire a scongiurare il collasso della biodiversità e la crisi climatica? Ma si possono mettere a dimora 1 000 mld di alberi entro il 2030? Prendiamo la calcolatrice sotto la guida di Francesco Ferrini, professore di Arboricoltura generale e Coltivazioni arboree all’Università di Firenze. Partiamo dallo spazio: «Se prendiamo un tiglio, il cui raggio della chioma raggiunge i 5 m a maturità, lo spazio occupato dalla chioma è di circa 78 mq. Per mantenerla verde e fotosinteticamente attiva per tutta la sua profondità, bisogna lasciare almeno un metro in più rispetto al raggio della pianta da adulta. L’area che serve è di circa 113 mq: fanno circa 85-90 piante per 10 000 mq, un ettaro. Se per semplicità calcoliamo 100 alberi per ettaro e moltiplichiamo la superficie necessaria a ogni pianta per il numero di alberi si arriva a 100 mln di kmq: 10 volte il Canada, il 70% delle terre emerse». Improponibile.
Ma se anche sgomberassimo tre quarti del Pianeta per fare spazio alle nostre buone intenzioni, ci condannerebbe il tempo: «Piantando 100 mln di alberi a settimana, servirebbero 192 anni. Con rese del 50%, 384 anni!». Diamo i numeri. Ridimensionate le pretese, però, chiediamoci ora se e quando piantare alberi sia una strategia ambientale cruciale come si pensa. «Piantare alberi non ha senso senza un programma a lungo termine su dove, quali, perché», prosegue Ferrini. E aggiunge: «Se parliamo di forestazione urbana o periurbana, per ridurre l’effetto serra, non si può delegare la soluzione soltanto agli alberi. Serve un nuovo stile di vita e un nuovo modello di sviluppo della città, che la liberi da auto e parcheggi, riporti alla luce e rigeneri il suolo, favorisca la ruscellazione naturale, riduca densità abitative, isole di calore e disboscamenti da agricoltura e allevamenti intensivi, industria, logistica».
Né piantare alberi su tetti e balconi, né alberare interstizi tra tangenziali e pompe di benzina, da soli, sono strategici, quindi. Soprattutto se avviene con alberi baby, che richiedono decenni per assorbire quantità significative di CO2, si compensa nuovo consumo di suolo o il taglio di piante adulte. D’altronde, non sempre serve il total green, dice Claudio Bertorelli, esperto di rigenerazione urbana, più spesso funziona il pendant con il grigio: «La maggior parte del nostro territorio, frammentato tra nuclei storici, siti industriali, strade e ferrovie, richiede interventi più articolati della mera piantagione. Ma fatichiamo a capirlo e le norme ci ostacolano. Per fare un esempio: i 700 ettari del Parco Nazionale della Pace di Vicenza, che avrebbero rigenerato il vecchio aeroporto, furono criticati da Unesco perché i suoi canali rettilinei furono ritenuti troppo “moderni” rispetto a quelli, supposti sinuosi, delle ville palladiane. Ma era un falso storico…».
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Illustrazione Giorgia Bacis, Fonte: eurostat.
L’alcolismo arboricolo
Il recente “alcolismo arboricolo” urbano, però, ha anche qualche buon motivo: in Italia boschi e foreste, lontano dalle città, negli ultimi 70 anni sono raddoppiati. Perché da un secolo assistiamo all’abbandono di montagne e campagne e alla crisi delle loro economie. «L’Italia tra i grandi Paesi europei, è seconda per copertura forestale, pari, con 11 mln di ettari, al 37% della sua superficie», spiega Fabio Renzi, segretario generale della Fondazione Symbola, «è un polmone che ogni anno sottrae all’atmosfera 46,2 mln di tonnellate (t) di CO2. Mentre il carbonio, intrappolato in fusti e rami, ne vale altri 4,5 mld. Gestendo meglio anche solo 783 000 ettari da legna miglioreremmo del 30% la sua capacità di assorbire C02, altrimenti destinata a ridursi del 7%». Di un simile patrimonio, circa 8 mln di ettari sono lontani dalle città, dove l’uomo arretra e avanza la natura, bisognosa di protezione. Ne abbiamo avuto un esempio con la tempesta di Vaia del 2018 in Trentino: 14 mln di alberi sradicati per un danno da 3 mld di €. Le tempeste in Europa causano il 50% dei danneggiamenti di boschi e foreste, più del fuoco, che pure in Italia soltanto nel 2021 ne ha distrutti 158 000 ettari: 15 mln di alberi, se piantati, ma 90 mln se il bosco è spontaneo.
A volte, come nel caso di Vaia, sono fenomeni inevitabili. Ma spesso no. E il loro impatto è amplificato dall’incuria. Davide Travaglini insegna Assestamento forestale e selvicoltura all’Università degli Studi di Firenze: «I boschi sono una straordinaria risorsa sia ecologica sia economica. Ma l’Italia la sfrutta in misura minima». Il 60%, frammentato in piccoli lotti, appartiene a privati, spesso senza che lo sappiano; il 30% pubblico, contro il 70% della Francia. Ma senza un’efficiente anagrafe forestale, la gestione è impossibile. Ecco le conseguenze: «Una foresta non gestita non protegge né se stessa, né la sua fauna, né noi dal rischio idrogeologico, dagli incendi, da insetti o parassiti. Inoltre, non consente la sua fruibilità turistica e la valorizzazione dei suoi mestieri». Perché, per esempio, non tornare a fare le botti per il vino, come i nostri nonni, anche in castagno, anziché importare rovere? «Grazie a una tecnologia sperimentata in università, che ne riduce l’impatto tanninico, stiamo verificando questa possibilità», conclude. Ma questo è soltanto un esempio di come le nostre foreste, anziché un costo, si possono trasformare in un investimento al servizio dell’ambiente e delle comunità. Se vogliamo mettere il dito nella piaga, infatti, è alle filiere industriali del legno che dobbiamo pensare.
Uno dei Paesi più forestati d’Europa, la patria del design e di Dante, infatti, importa da oltre confine la maggioranza del legno per edilizia, design, industria della carta. «Un’assurdità sotto il profilo ecologico ed economico, cui anche il Pnrr non ha fornito risposta, assegnando ben 74 mld di € all’edilizia e 0 € alle foreste», commenta Antonio Brunori, Segretario Generale della sezione italiana di Pefc, l’ente per la certificazione del legno.
Presidente dell’Istituto Nazionale di Architettura, brand manager di Listone Giordano, azienda di design specializzata in pavimentazioni in legno di alta gamma, e Presidente della Fondazione Guglielmo Giordano.
TGL: In 150 anni di storia siete passati dalla fornitura di traverse di rovere alle Ferrovie dello Stato ai parquet di design. Perché i vostri boschi sono in Francia?
A.M.: La Francia ha una tradizione, nella coltivazione delle foreste, che risale al XVII secolo e affonda le radici nel monachesimo dell’XI. In particolare la selvicoltura di latifoglie a lenta crescita, che in epoca moderna si diffuse per rifornire i cantieri delle flotte navali.
TGL: Non esiste nulla del genere in Italia?
A.M.: I numeri parlano da soli. La Francia conta su oltre 17 mln di ettari di foreste, soprattutto rovere e altre latifoglie, il 50% destinato alla produzione, con una gestione sostenibile certificata, una filiera di 400 000 addetti e un fatturato di 60 mld di € all’anno. In Italia non esiste nulla di simile e le rare eccezioni riguardano le conifere, ossia specie a rapida ricrescita concentrate soprattutto in arco alpino.
TGL: Perché?
A.M.: La selvicoltura si pianifica a lungo termine, da un minimo di qualche decennio fino a un arco temporale tra 150 e 200 anni per latifoglie a lenta ricrescita come rovere, noce e altre specie impiegate nel settore dell’arredo. Benché non siano mancati precedenti storici, come la Repubblica di Venezia, nell’Italia postunitaria questo approccio si è spento.
TGL: Con quali conseguenze?
A.M.: L’industria del mobile acquista materia prima all’estero mentre la filiera del legno è dedita alla trasformazione anziché alla produzione. Un’inversione di tendenza avrebbe tempi lunghi, ma sarebbe auspicabile, non ultimo per i rilevanti benefici ambientali. La selvicoltura ottimizza quantità e qualità degli alberi e capacità di assorbimento di CO2. Inoltre, un esteso ricorso al legno immagazzina carbonio sottraendolo all’atmosfera per anni prima che sia rilasciato. Ogni metro cubo utilizzato, a differenza di acciaio, cemento, ceramica, plastica e resine sintetiche, riduce in media di una tonnellata la CO2 e concorre al rilascio di 700 kg di buon ossigeno.
Val di fiemme, vivaio di abeti di Solaiolo.
La “fabbrica del legno” di tronçais, nel cuore della francia: 10.600 ettari di rovere.
Abete di due anni
Che aggiunge: «L’Italia utilizza circa il 30% dell’incremento annuo delle foreste nazionali, per vari assortimenti legnosi. È il tasso più basso d’Europa, in media oltre il 55%». Ce ne siamo accorti lo scorso anno, quando a causa di pandemia e Superbonus 110%, il prezzo del legname è salito del 60-70%. Ma i paradossi non sono finiti. Sempre Brunori: «L’Italia nel Triveneto ha chiuso in 15 anni l’80% delle segherie, una fiorente industria nel Nord Europa, perdendone le professionalità, tanto che senza le imprese straniere, soprattutto austriache, non saremmo riusciti a sgomberare gli 8 mln di metri cubi di legname di Vaia. E ancora dobbiamo esboscarne 2,5 mln». Così, importiamo legno da Austria, Germania, Francia, Cina, Polonia, alla faccia del km zero e delle zero emissioni. Ma sarebbe lo stesso piantando gli alberi promessi. Perché non li abbiamo: «Senza un investimento pubblico, i nostri vivai non soddisferanno una richiesta simile: importeremo per anni alberi che dovremo ripiantare più volte, non sopravvivendo alle nostre latitudini», dice Brunori. O peggio. Perché il mercato illegale del legno, nel mondo, è secondo soltanto a quello della droga. Forestami, sì, ma prima “disintossicati”.