Dragone o Elefante? La sfida asiatica tra Cina e India
Il drago rallenta la corsa. L’elefante ne approfitta, incalza, tenta di superarlo: se mai c’è stato un momento ideale per il sorpasso dell’India sulla Cina, è questo. Sulla carta, condividono una macro-regione, due tra le più antiche culture esistenti, un passato prevalentemente agrario e un presente, frutto di anni di pianificazione industriale, che le vede svettare come due tra le principali economie al mondo: secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, infatti, nel 2023 peseranno per la metà della crescita economica globale. Le uniche a poter contare su oltre un miliardo di abitanti. E qui iniziano le criticità, però: dopo 60 anni di primato, Pechino – che quest’anno crescerà in termini di Pil del 5,2% contro il 7% indiano – annuncia il primo calo demografico, che la vedrà presto superata da New Delhi: «C’è una competizione in atto per quanto riguarda le sfere di influenza a livello regionale, che va al di là del conflitto a bassa intensità sul confine condiviso», spiega l’economista Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese per il Politecnico di Milano. La Cina vive uno dei momenti di maggiore difficoltà della sua storia recente: il costo della manodopera, raddoppiato in dieci anni, rende meno solida la storica posizione di workshop produttivo del mondo. La domanda interna non è ancora in grado di compensare l’export (crollato durante la pandemia) e l’imprenditoria privata, protagonista delle performance degli ultimi 40 anni, ha perso slancio.
Connaught Place il polo commerciale e finanziario di New Delhi
Spiega Noci: «È accaduto sia per via della situazione geopolitica, sia per il fatto che negli ultimi anni la presenza del Partito Comunista nell’economia è andata aumentando, rallentando i bollenti spiriti degli imprenditori». Certo, nel 2021 l’economia indiana valeva circa il 17% di quella cinese e il nazionalismo hindu del primo ministro Narendra Modi si è tradotto spesso in protezione dell’industria nazionale: «La Cina è cresciuta quando si è aperta, in India succede il contrario», riflette Noci. «Nel breve periodo non potrà forse sostituire la Cina, ma beneficerà della minor attrattività cinese per gli investitori stranieri». Conferma Harsh V. Pant, analista del think tank indiano Orf e professore di Relazioni Internazionali al King’s College di Londra: «Se guardiamo agli accordi di libero scambio da poco siglati o in via di concretizzazione con Australia, Emirati Arabi, Canada, Regno Unito ed Europa, ci dicono che l’India sta emergendo come attore stabile economicamente e politicamente». E prosegue: «Il primo ministro Narendra Modi vuole passare alla storia come il leader che è stato in grado di cambiare il Paese. E sa che certi momenti capitano raramente nella storia». A lungo eterna promessa per i mercati globali, oggi l’India si propone come hub manifatturiero alternativo alla Cina, attrae investimenti tecnologici, energetici, di difesa. Si apre alla digital economy e sembra reggere scandali come quelli che hanno investito il grande conglomerato Adani: «L’Occidente e l’Europa in particolare guardano con favore al fattore demografico e al fatto che entro il 2027 l’India potrebbe passare da quinta a terza economia mondiale».
Smart check in al wechat open class pro
Paytm app, leader indiana dei pagamenti digitali, si usa anche nei banchi del mercato.
Parlando di tecnologia, elenca Pant, l’India ha dato vita negli ultimi due anni a più “unicorni” della Cina e ha da poco chiuso il più grande acquisto nella storia dell’aviazione civile, un accordo da 34 mld di $ tra la compagnia di bandiera Air India e Boeing. Produttori come Apple, Samsung e Nokia stanno accelerando il passaggio, almeno parziale, della loro produzione in India. Basterà? «Nonostante il tentativo di occupare le posizioni lasciate scoperte dall’avversario, imponente resta il peso di gruppi cinesi come Alibaba, Tencent, Pinduoduo e Huawei, leader nelle tecnologie 5G», ribatte Noci. Secondo l’Australian Strategic Policy Institute, su 44 tecnologie critiche esistenti a livello globale, 37 sono cinesi – anche se sul Paese pesa una forte dipendenza dai chip stranieri. Indicativo, in questo senso, l’interesse verso la creazione della moneta di una banca centrale digitale, o Cbdc: «I pagamenti internazionali oggi avvengono in gran parte intermediati dal dollaro americano», spiega Martin Chorzempa del Peterson Institute for International Economics, autore di The Cashless Revolution: «Cina e India come altri Paesi sono interessate a esplorare possibilità che potrebbero offrire più spazio geopolitico e, si spera, pagamenti più rapidi, economici ed efficienti». Per quanto riguarda le Cbdc retail (consumatori o aziende), entrambi i Paesi possono contare su pagamenti digitali ben sviluppati. Tuttavia per la Cina il tema centrale è quello dell’inclusione finanziaria, del controllo e della protezione del pagamento, mentre in India una rupia digitale permetterebbe di ridurre le dimensioni dell’economia informale. Ma siamo ancora, tutto sommato, in una fase iniziale: «La Cina è molto più avanti nello sviluppo di una Cbdc, ma ancora non è utilizzata su larga scala. Nonostante gli importanti progetti pilota e il numero elevato di utenti, la maggior parte delle persone utilizza lo yuan digitale gratuito durante il periodo di prova e poi torna alle più usate app Alipay e WeChat». Più interessante è lo sviluppo futuro di Cbdc wholesale, per le istituzioni finanziarie: per i cinesi, alla luce delle recenti sanzioni alla Russia, potrebbe trattarsi di un asso geopolitico nella manica. Per gli indiani questo significherebbe pagamenti transfrontalieri e rimesse dei migranti più agili: nel 2022 hanno superato la cifra record di 100 mld di $: quasi il doppio della Cina. È proprio agli espatriati che le due potenze guardano per esercitare il loro soft power.
con il cortometraggio the elephant whisperers, Kartiki Gonsalves e Guneet Monga sono state premiate agli oscar 2023
il film sino-americano ironico e surreale, è stato premiato agli oscar 2023 con ben 7 statuette, tra le quali quella per il miglior film.
Guardando all’India, accanto a yoga, ayurveda e alle altre discipline fisiche e spirituali olistiche, a farla da padrona è stata l’industria cinematografica. Secondo Ivano Fucci della casa di produzione Odu Movies, produttore esecutivo specializzato nelle produzioni indiane, è possibile riconoscere una certa ciclicità nell’interesse globale nel cinema indiano – il cui apice è stato raggiunto grazie alle piattaforme streaming con film come Rrr e Pathaan. La consacrazione è stata il doppio Oscar per la canzone Naatu Naatu del film Rrr (prima vittoria indiana in questa categoria) e per il documentario The Elephant Whisperers: «È un momento d’oro per l’India, che abbraccia anche letteratura e musica, e va capitalizzato prima della naturale china discendente». In questo senso, secondo Fucci il soft power indiano ha beneficiato della crescente carica di personalità di origine indiana: sia va dal primo ministro inglese Rishi Sunak al Ceo di Google Sundar Pichai, fino ad attrici come Priyanka Chopra, che mantengono forti rapporti con le loro radici, trasmettendo via social valori, tradizioni, ma anche gusti musicali o letture. A sbancare agli ultimi Oscar è stato però Everything Everywhere All At Once, film di fantascienza e kung-fu sino-americano, che ci dice molto della comunità cinese nella regione. Secondo Katherine Chu, ricercatrice della California State University specializzata in soft power e industria cinematografica cinese, tutto nasce con la co-produzione americana e cinese di La tigre e il dragone, diretto da Ang Lee: fu un tale successo da spingere il governo cinese a investire fortemente in pellicole sulle arti marziali. Sono così nati Hero di Zhang Yimou, The Promise di Chen Kaige, e The Banquet di Feng Xiaogang: «Nessuno dei tre registi aveva esperienze precedenti con film di arti marziali. Le pellicole non andarono male, ma non ebbero neppure grande successo. Il che spinse la Cina alla seconda fase della sua strategia: produrre film cinesi, con registi cinesi, sceneggiature cinesi e grandi attori di Hollywood». Ecco quindi I fiori della guerra, con Christian Bale, e The Great Wall, con Matt Damon. Ma la risposta non fu soddisfacente. In un breve periodo di “luna di miele” tra Cina e Stati Uniti, si passò dapprima all’acquisizione cinese della Amc, la più grande catena di cinema del mondo, quindi della casa di produzione Legendary Entertainment, quella di Dune di Denis Villeneuve: «In questo modo è possibile controllare la narrazione che viene fatta della Cina, dei suoi leader, del governo, delle istituzioni. E al tempo stesso distribuire film che altrimenti non avrebbero potuto contare su una forte diffusione a beneficio della comunità cinese, come Full River Red di Zhang Yimou, uscito a marzo in centinaia di cinema statunitensi».