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Destini nomadi: il viaggio senza fine tra le terre della Mongolia

Qualcosa non torna. Dall’aeroporto di Ulan Bator, completamente perso tra queste colline erbose, l’autostrada – l’unica del Paese – serpeggia in un ambiente naturale all’apparenza dolce e ostile nello stesso tempo, mentre le poche iurte sparse nel paesaggio non sembrano mai davvero al loro posto in questa no man’s land. Incongruenze. Qui si guida a destra, ma una vettura su due ha il volante dalla parte sbagliata – spesso si tratta di vecchie Toyota Prius importate dal Giappone, che sono il bestseller locale. A bordo ci sono famiglie e gruppi di contadini diretti in città. Poi tutto subisce un’accelerazione, il traffico lungo la strada si intensifica, l’improvvisa urbanizzazione offre un contrasto stridente tra le montagne – da una parte all’altra – e gli edifici tristi e una centrale elettrica fumante, letteralmente nel cuore della città. La capitale della Mongolia si lascia avvicinare di petto, senza libretto di istruzioni. È difficile credere che qualche mese fa qui ci fossero -40°C e che l’inquinamento registrato fosse tra i peggiori al mondo. In questa mattina di giugno – mese in cui l’abbiamo visitata, lo scorso anno – l’aria è dolce, apparentemente sana; la sentiamo proprio alla temperatura giusta. La luce leggermente soffusa, le nuvole che punteggiano il cielo e il verde delle montagne contrastano con il cemento grezzo degli edifici di questa città che sembra essere stata costruita senza alcun piano urbanistico, aliena da criteri di uniformità architettonica, condizionata dalla posizione geografica e dal suo sviluppo esponenziale. Tra le reliquie dell’epoca sovietica e i timidi tentativi delle costruzioni moderne in stile americano, l’unica caratteristica coerente di questo tessuto urbano è la sua generale mancanza di fascino. Stretta tra Russia e Cina, la Mongolia sta lottando per trovare il suo posto, oggi. Che contrasto con l’epoca di Gengis Khan e il suo gigantesco impero del XIII secolo, uno dei più grandi della storia! D’altra parte, non si sta male a Ulan Bator, osservando quel poco di vita locale visibile a occhio nudo in questa città che concentra la metà della popolazione del Paese con il suo 1,7 mln di abitanti. Difficile da credere, tanto le strade sono prive di presenza umana; o, perlomeno di pedoni: gli ingorghi sono una piaga locale, e i parcheggi la dicono lunga sulla società autoctona, con vecchie carrette munite di sospensioni rialzate e – più rare, ma altamente simboliche – vistose Mercedes Classe G di ultima generazione, spesso in versione Brabus e carrozzeria pastello. Lo stipendio medio di 1,2 mln di tugrik (circa 320 €) non vale per tutti… Ma almeno queste 4×4 hanno uno scopo reale: i percorsi accidentati sono l’unico modo per raggiungere gli angoli più belli di un Paese grande più o meno cinque volte l’Italia.

viaggio in Mongolia

Foto: Aurélien Chauvaud

Viaggio in Mongolia

Foto: Aurélien Chauvaud

Scattare, e subito ripartire

Nell’albergo antiquato in cui stiamo lottando contro il fuso orario, un geologo francese alla sua ultima missione ci descrive la ricchezza del paesaggio – e del sottosuolo, perché Ulan Bator è una roccaforte di civiltà. Che acquisti fare, come prepararsi quando non si è sicuri dell’avventura che si sta per intraprendere? Una cosa è certa: la cucina qui non si distingue, a meno che non vi piaccia il montone grasso bollito. Guardiamo Aurélien, il nostro fotografo, pronto a nutrirci di composte “made in France” – purtroppo. Ma l’esperienza sarà migliore del previsto, grazie alla mensa allestita a ogni tappa dai due cuochi della squadra messa insieme dai nostri ospiti di Caravanes Aventures e dal loro partner locale. Alla faccia delle composte… Durante il viaggio, molto rapidamente dobbiamo fare delle scelte per immortalare ciò che scopriamo, fermandoci in mezzo al nulla, chiedendo un ritratto e ripartendo per non perderci o per non farci attendere. A volte scattiamo foto di volata dall’auto. Il gruppo con cui ci troviamo ama la fotografia, ma non ha gli stessi riflessi. Baga Gazar, Tsagaan Suvarga, Dalanzadgad, Zuun Saikhan, Yolyn Am… Una gola con un seracco permanente nell’incavo della sua roccia, una duna fiancheggiata da cavalli che pascolano in un’oasi di un verde soprannaturale, un canyon di rocce nere vertiginose, pareti a picco con camini delle fate, una cascata degna di Twin Peaks… Tanti nomi, tanti luoghi, tanta cruda bellezza e, a volte, tanti incontri, davanti a una iurta, vicino a un gregge o su uno dei tanti sentieri che si incrociano, formando delle serpentine. Tutti sembrano paralleli, alcuni generano più di altri queste vibrazioni dell’infernale lamiera ondulata, dovute al susseguirsi di piccole onde che scuotono le sospensioni e lo sterzo. Ogni giorno facciamo circa 200 km, di più non si riesce. Come i paesaggi, anche la configurazione dei tracciati cambia continuamente: passaggi continui, ondulazioni, interruzioni, ghiaia, sabbie profonde, erba ingannevole, rocce isolate, solchi marcati che fanno slittare le ruote, e sempre una polvere spessa che nasconde la vista e secca le mucose.

Viaggio in Mongolia

Foto: Aurélien Chauvaud

Foto: Aurélien Chauvaud

Pioggia da fine del mondo

Le distanze sono immense. Così si prosegue, tra lo stupore per il paesaggio in continua evoluzione e la routine avvertita quando il cambiamento non è così netto, e la stanchezza inizia a farsi sentire. Bisogna rimanere concentrati, eppure lo spettacolo totale della natura nella sua pura essenza è una distrazione costante. Come immaginare la vita di questo popolo nomade che si sposta da un luogo all’altro a seconda delle stagioni e del benestare delle mandrie? La vita in una iurta, frugale, lontana da tutto, impostata sui bisogni degli animali. E forse anche, a volte, l’apparizione del dramma, come nei libri di Ian Manook il cui protagonista è un poliziotto disilluso: Yeruldelgger. In una di queste giornate calme e calde, è stato diramato un avviso di maltempo; improvvisamente, il vento si è alzato. Un muro di sabbia che presto oscura il paesaggio è in arrivo. Siamo in un’improbabile cittadina, Dalanzadgad, in cerca di vita locale. Tutto si blocca, la pioggia batte sui vetri, un pallone attraversa la strada a velocità sovrumana, e poi tutto torna alla normalità. Qualche giorno dopo, assisteremo a una tempesta simile, densa, con un’atmosfera da fine del mondo, questa volta in mezzo al nulla. Improvvisamente, pioggia nel deserto. Adesso le antiche credenze sul cielo che ti si rovescia in testa appaiono più chiare. La 4×4 sembra perdere colpi, la terra argillosa è diventata una pista di pattinaggio e i guadi si sono riempiti d’acqua. Semi-panico di rimanere bloccati sotto la tromba d’acqua. Tra i bivacchi in stile glamping con doccia e materassi gonfiabili king-size e i campeggi per turisti con iurte rigide, ci destreggiamo in base al tempo, senza subirlo troppo. A volte impariamo a capire ciò che vediamo, con l’aiuto delle nostre guide. I cavalli sembrano liberi nella piana, ma non sono selvaggi. Ecco gli allevatori locali prendere i puledri al lazo per separarli dalle madri e iniziare lo svezzamento. Ecco le loro famiglie, con – per i bambini – un’intera valle come parco giochi. Ecco, a volte, turisti in simpatici minivan russi Uaz grigi o in fuoristrada giapponesi. Come noi, che concluderemo il nostro viaggio di 2 200 km in una sorta di apocalisse, con tempeste di neve e alluvioni, tornando nella Capitale in un enorme ingorgo che ci farà quasi rimpiangere la tangenziale di casa e interrogarci su cosa si intenda veramente per “civiltà”.

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