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Dal dramma della Xylella, mango, avocado, papaya…

Cataldo Moro vive nella la zona rossa. Quel lembo di penisola salentina dal Capo di Leuca a Castellana Grotte dove gli olivi secolari, che persino ai turchi erano sopravvissuti, sono morti nel numero orribile di 22 mln per un’epidemia di Xylella fastidiosa arrivata dal Costa Rica. Un batterio sbarcato nel 2018 ma scoperto cinque anni più tardi, con tutto il tempo quindi di adattarsi a lu sole e lu viento, appunto perché “fastidioso” e difficile da riprodurre in laboratorio e conoscere a fondo. Nascosto, se ne ha la certezza, in una piccola pianta di caffè. Come i suoi vecchi ulivi, anche Cataldo è una creatura secolare. Ha passato 94 anni un po’ in campagna e un po’ nell’azienda artigiana di costruzioni che ora gestiscono figli e nipoti. Orgoglioso dei due ettari ereditati dai genitori coi quali produceva dieci quintali di olio che bastavano per la famiglia, i clienti e gli amici. «L’ultimo raccolto l’ho fatto quattro anni fa: 47 kg al posto dei soliti 60 quintali. Sono riuscito a riempire una decina di bottigliette: l’anno dopo, per la prima volta in vita mia, sono andato a comprare l’olio al supermercato». Per questo lembo di Mediterraneo, ancor più che in Francia e in Portogallo dove la Xylella si è pur diffusa, l’epidemia sta rappresentando uno spartiacque culturale, un reset antropologico e di relazioni sociali. L’ulivo era il signore dello sguardo e il disegnatore del territorio. L’olio si donava e si barattava. Lo si versava sulle pietanze tracciando il segno della croce, in un sincretismo tra cristianesimo e credenze pagane descritto dall’antropologo Ernesto De Martino nel libro La terra del rimorso (riedito da Einaudi nel 2023). E di padre in figlio e madre in figlia è stato ed è l’indicatore della fascinazione, l’amuleto del rituale che le giovani chiedono alle nonne quando temono di essere oggetto di malocchio o invidia. Amara terra mia cantava Domenico Modugno descrivendo i campi di Puglia. Amara e bella. Che oggi tenta di reinventarsi innestando una nuova generazione di colture tropicali che della Xylella sono la nemesi buona. Frutti che amano il caldo e non conoscono le gelate. Favoriti da una politica di finanziamenti europei e regionali che i giovani agricoltori hanno accolto con mentalità internazionale. E che del morbo, sono anche i “gemelli diversi”: se la catastrofe ha infatti trovato nei mutamenti del clima il grande l’alleato, idem hanno fatto gli avocado che ne stanno prendendo il posto. Nutriti da una terra di Puglia – hotspot climatico del Mediterraneo – dove le temperature medie sono cresciute di quasi due gradi negli ultimi 60 anni.

Xylella

Mango rosa. Illustrazione di: Cristina Amodeo.

Xylella

Papaya. Illustrazione di: Cristina Amodeo.

Culla del male, quindi. Culla indistricabile del bene, altrettanto. In cinque anni, la coltivazione di frutti esotici ha moltiplicato da queste parti la sua estensione: da poche decine a oltre 500 ettari fa sapere Coldiretti Puglia, quasi la metà dei 1 000 totali impiantati tra Salento, Calabria e Sicilia, dove addirittura si sperimenta col caffè. Sono 40 000 le piante di avocado piantumate nella zona di Castellaneta, con la pioniera Masseria Fruttirossi in testa. Che si aggiungono alle 100 000 già in fioritura a macchia di leopardo lungo tutto il Salento. «La varietà di avocado maggiormente utilizzata è la hass» spiega il direttore di Masseria Fruttirossi Dario De Lisi, «che al pari della wonderful per il melograno è la più richiesta sul mercato. Il raccolto si attesta intorno ai dieci quintali ma le piante sono ancora piccole e ci aspettiamo un incremento dei volumi già a partire dal prossimo anno». Coltivazioni che spingono gli imprenditori a introdurre soluzioni all’avanguardia, per proteggere le piante da un meteo più arido, vero, ma allo stesso tempo soggetto a smottamenti fulminei: «Manifestazioni brusche e repentine, dalle gelate alla grandine, sono sempre più frequenti», continua De Lisi, «quindi impieghiamo reti di protezione finissime oltre a immensi ventilatori che hanno il compito di smuovere l’aria più fredda riducendo l’effetto gelo sui frutti». Nuove tecniche per nomi davvero alieni, almeno alle orecchie dei vecchi contadini pugliesi: bacche di goji, bacche di aronia, mango, zapote nero, casimiroa. Sono 8 000 le radici di mango e di lime censite in questo lembo di Sud. Più limitate, ma in crescita, la grandi foglie di banano che si stagliano sul mare salentino, in un florilegio di esperimenti di riconversione favoriti dal Pnrr e dai 25 mln stanziati dalla Regione con l’articolo sette del Piano di rigenerazione olivicola. «Io sono un tecnico agrario e produco agrumi in un arenile perfetto che inizia però a soffrire per le temperature altissime: per salvare arance e clementine devo irrigare di più, con relativo aumento dei costi energetici per pompare l’acqua dai pozzi», dice Domenico Maraglino, titolare dell’omonima azienda agricola di Massafra, a Taranto. Da qui, la necessità di cercare nuove strade: «Abbiamo 300 piante di lime entrate ormai in piena produzione dopo otto anni di studi. Commercialmente ce la vediamo col Messico e col Brasile, che considero ormai geograficamente sul nostro stesso parallelo. La differenza è che loro non producono biologico, mentre noi lo facciamo da sempre. E se ci pensa, nel mojito, si usa la buccia. E questo, in un mondo sempre più attento alla salute, farà la differenza».

Zapote nero. Illustrazione di: Cristina Amodeo.

Xylella

Avocado. Illustrazione di: Cristina Amodeo.

Dalle parti di Domenico intanto la Xylella fastidiosa non è ancora arrivata, arginata da una zona cuscinetto larga cinque chilometri, una “linea Maginot” che va da Mola a Massafra, oltre la quale il batterio non sembra essere riuscito a saltare. L’assalto, che progrediva alla velocità di 20 km l’anno, pare essersi rallentato. «Non per apparire ottimista ma si tratta di una vera stasi», dice Donato Boscia, dirigente di ricerca dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante (Ipsp) del Cnr a Bari e massimo conoscitore dell’epidemia. Vale la pena ascoltare le sue parole, quasi senza interruzioni: «Ed è uno stop dovuto a diverse concause: prima di tutto la demarcazione fatta dalle autorità europee nel 2018: per più di tre quarti, il territorio coinvolto è rimasto lo stesso, a parte qualche sconfinamento a nord verso la Puglia adriatica: pochi comuni del barese, Castellana, Polignano e Monopoli. Il fattore climatico in questo senso aiuta: la Xylella trova la zona di comfort con inverni molto miti e medie estive intoro ai 28 gradi: vedere una gelata a Gallipoli è quasi impossibile mentre a Bari è meno raro. Per quanto le temperature in aumento, in prospettiva, non giocano a nostro favore». E poi, continua Boscia, ci sono le tecniche di gestione dei terreni: «Nella Piana degli ulivi monumentali, tutto intorno a Fasano e Savelletri, è più diffusa l’abitudine di tenere i campi puliti e privi di erbacce, dove la sputacchina, l’insetto vettore del morbo, si annida. E anche le potature sono più frequenti: questo rende la popolazione di insetti vettori meno numerosa».

Xylella

Casimiroa. Illustrazione di: Cristina Amodeo.

Annona. Illustrazione di: Cristina Amodeo.

E basta un giro in bicicletta tra le campagne di Savelletri per accorgersi che non è lo stato di emergenza, bensì sono l’ordine e la cura, le medicina preventive più efficace. Gli olivi appaiono ancora solidi e potenti. La terra rossa è accesa e invitante. E all’ombra delle piante esalano il loro profumo le piantagioni di sedano e di cavolo nero, in un biologico antico e intuitivo. «Noi facciamo le cose a dovere, ma anche ai comuni tocca fare la loro parte», lamenta Alessandro Colucci, titolare della Masseria Maccarone, 61 ettari intorno a una fortificazione del ’600 protetta dai Beni culturali. «Vedo girare un enorme drone per il monitoraggio delle potature e anche moltissimi carabinieri forestali a cavallo. Ma il bordo carreggiata delle statali è infestato da erbacce: non vorrei che la Sputacchina si potesse riprodurre lì in mezzo». L’artiglieria pesante contro il morbo però non è fatta solo di droni e reggimenti a cavallo. Ma anche di sartoria strategica, grazie a una strategia di innesti che mira a diffondere sul territorio nuove specie resistenti. Finora solo due varianti erano state autorizzate: favolosa e leccino. Alle quali sono state aggiunte lecciano e leccio del corno, un cultivar toscano che potrebbe far rinascere gli olivi del Salento. Ma anche qui, un cambio di civiltà: colori diversi, sapori differenti, foglie nuove, un adattamento per non morire. D’altronde, oltre il 46 parallelo, nella provincia di Sondrio, ormai si produce olio con facilità. A Martina Franca invece, scambiare una noce di capocollo con una cassa d’olio di avocado, alle nuove generazioni apparirà normale.

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