Codex Seraphinianus: La grammatica della fantasia di Luigi Serafini
Non fu Luigi Serafini, ma la sua gatta bianca a scrivere il Codex Seraphinianus, “L’enciclopedia di un visionario”, come lo definì Italo Calvino, pubblicata nel 1981 da Franco Maria Ricci e diventata un oggetto di culto. Lo confessò lo stesso Serafini molti anni dopo: accovacciata sulle sue spalle, con la coda che le penzolava a destra e a sinistra, quella gatta trovata all’angolo di una strada di Roma gli aveva trasmesso canzoni e racconti, accelerando la conclusione di un libro iniziato per caso un pomeriggio del 1976. Luigi Serafini allora aveva 27 anni. «Stavo disegnando con matite colorate su un foglio d’album alcuni corpi umani ibridati con protesi a forma di pinza, ruota di bici e penna stilo, come se fossi a scuola di nudo-cyborg in un’Accademia di Belle Arti Spaziali. Abbozzavo le immagini seguendo un criterio quasi tassonomico e a un certo punto mi sembrò che mancassero delle scritte per completare quel disegno, sempre più simile alla pagina di un atlante d’anatomia comparata», ricorda l’artista. Che tipo di didascalie avrebbe potuto inserire e soprattutto in che lingua? Inventare un nuovo alfabeto, indecifrabile e alieno, gli sembrò allora la cosa più urgente da fare. Nacque così, nei tre anni di eremitaggio che seguirono, un codice miniato visionario e misterioso, l’enciclopedia visiva di un mondo in cui amanti-coccodrillo, animali che si trasformano in minerali e una sequenza di altre invenzioni colorate sono commentate in una scrittura incomprensibile e inesistente, una scrittura, spiega Serafini, «che conteneva il sogno di tante altre scritture».
alcune tavole del codex seraphinianus, la cui prima edizione risale al 1981, quando franco maria ricci lo pubblicò in due volumi nella collana i segni dell’uomo della rivista fmr.
Il Codex Seraphinianus arrivò in libreria grazie all’incontro con Franco Maria Ricci, l’editore che pubblicava Borges e Julio Cortázar e sognava di costruire un labirinto (quello della Masone a Fontanellato, in provincia di Parma, poi inaugurato nel 2015). Per aumentare l’aura di mistero intorno all’opera, Ricci omise volutamente il nome dell’autore in copertina. Per l’occasione, poi, Italo Calvino scrisse un articolo sul primo numero di Fmr, la rivista della casa editrice, mentre Vittorio Sgarbi presentò la mostra con 100 tavole originali allestita a Palazzo Grassi a Venezia. Fu un successo. Negli anni successivi vennero pubblicate alcune edizioni internazionali (per l’americana Abbeville Press, la tedesca Prestel Verlag e l’olandese Meulenhoff/Landshoff), a cui seguirono, dagli Anni 2000, quattro edizioni per Rizzoli (di cui l’ultima, celebrativa, uscita per i 40 anni) e un’altra per la casa editrice ucraina Laurus, oltre a un’imitazione cinese che Serafini custodisce gelosamente a casa sua. Negli ambienti della cultura (e non solo) il Codex era un cult, apprezzato da personaggi come Roland Barthes (che lo vide in anteprima, quando ancora non era stato pubblicato), Achille Bonito Oliva, Tim Burton, Federico Fellini, Giorgio Manganelli e Federico Zeri. Qualcuno ha anche paragonato la sua scrittura a quella automatica dei surrealisti o al metodo paranoico-critico di Dalí e ipotizzato che dietro di essa si nascondesse un linguaggio esoterico. «Volevo portare in libreria un libro che fosse in grado di rendere tutti analfabeti e quindi tutti potenziali lettori: un libro che doveva creare una sorta di analfabetismo universale. Tutti stanno di fronte al Codex come bambini che devono imparare a leggere, una sensazione, fra l’altro, bellissima che tutti ricordiamo o che abbiamo visto con figli e nipoti. Quel momento magico dove non sapendo ancora leggere si imitano gli adulti, un momento fantasmagorico, fantasmatico, mitopoietico nel quale la fantasia si libera nell’imitazione degli adulti che leggono cose incomprensibili», smentisce lui. “Ma che prendeva Serafini quando faceva il Codex?”, ha azzardato qualcun altro su Instagram o su qualche blog: «Al massimo ho sempre ammesso di essermi fatto qualche bicchiere di Valpolicella, perché in via Sant’Andrea delle Fratte, dove ho realizzato il Codex, all’epoca c’era una trattoria dove si pagava poco. Quello è l’unico ricordo di un aiuto, a parte la presenza della gatta, che mentre disegnavo si accoccolava sulla mia spalla. Lei sicuramente mi ha aiutato».
gli interni della casa di luigi serafini, in via salita de’ crescenzi, a Roma.
l’appartamento appartiene all’ordine di malta, che ora lo reclama.
Ma chi è Luigi Serafini, che il Museo d’Arte Contemporanea di Roma (Macro) celebra con una mostra fino al 25 agosto? Nato a Roma nel 1949, è innanzitutto disegnatore, quindi architetto, pittore, scultore e designer. Nel corso della sua carriera ha collaborato con il gruppo Memphis di Ettore Sottsass, disegnato sedie per Sawaya & Moroni, lampade per Artemide, ma anche locandine per Federico Fellini e scenografie per la Scala di Milano. Prima di realizzare il Codex, decisivo è per lui un viaggio di quattro mesi in America fatto all’inizio degli Anni 70. In quel periodo, come lui stesso racconta, «le città erano i nodi in cui i giovani si spostavano portando immagini, concerti, ci si abbeverava nei nuovi fenomeni editoriali, c’era un movimento beat, ma più nel senso di bit. Internet nasceva con il progetto Arpanet e io ero fissato con l’idea che i miei disegni non dovessero passare per il circuito chiuso delle gallerie d’arte, ma dovessero diventare un libro e circolare in una rete, che non c’era ma che sarebbe arrivata». Serafini, poi, lo ha anche detto: «Se lo pubblicassi oggi, il Codex sarebbe un blog». E invece oggi il Codex Seraphinianus è un bestseller mondiale da oltre 70 000 copie, un oggetto del desiderio riscoperto anche dalla Generazione Z, che se ne è fatta addirittura tatuare alcuni disegni. Gli stessi che, come un’estensione della fantasia dell’artista, popolano la sua casa romana di via Salita de’ Crescenzi, a due passi dal Pantheon. Uno scrigno di opere che genera altre opere e che ora rischia di scomparire per sempre. «I Cavalieri di Malta mi vogliono cacciare», dice lui che vive qui dal 1987. L’appartamento-studio, situato al piano alto di un palazzo antico, appartiene infatti all’Ordine di Malta che ora ne reclama la proprietà, nonostante negli anni lo spazio si sia trasformato in un’opera d’arte totale. All’ingresso le pareti sono rosse, con alcune teche, ideate dallo stesso Serafini, che come piccoli cabinet de curiosités racchiudono l’universo immaginifico dell’artista prima che questo si irradi su sedie, tavolini, applique e sovrapporte. «È il mio habitat. Io ho sempre bisogno di trasformare i luoghi in cui vivo, per sentirmi protetto. Se mi chiudessero in prigione, sono sicuro che affrescherei la cella», ironizza lui. Similmente a quanto avvenuto alla casa di Giacomo Balla, Serafini spera che anche la sua possa essere tutelata, anziché regredire all’anonimato di un semplice immobile collocato in una delle piazze più centrali di Roma. Come il Codex, essa diventerebbe «un ottimo strumento, anche didattico, per esercitare la fantasia».