
Onda grigia: la rinascita del cemento a vista
Fu un gruppo di critici che con sprezzo coniò il termine: per loro “brutalista” era un’espressione denigratoria, un epiteto ingiurioso da attribuire ad architetti affascinati da Le Corbusier e dalla sua apologia del cemento a vista (il “béton brut”), per i quali l’architettura era “stabilire rapporti emozionali con materiali grezzi” (lo scriveva ancora Le Corbusier nel libro, del 1923, Verso una architettura) e che, in alcuni casi, conoscevano l’Art Brut di Jean Dubuffet, la pittura di Jackson Pollock e di Karel Appel e i “Sacchi” di Alberto Burri. Nella Londra del secondo Dopoguerra, la definizione di Brutalismo abbozzata nei circoli architettonici aveva più a che fare con la brutalità che con l’onestà dei materiali. Agli architetti però l’appellativo piacque e, come già in campo artistico avevano fatto gli impressionisti e i Fauves, lo adottarono con orgoglio per descrivere le proprie opere. I primi furono Alison e Peter Smithson con il progetto della scuola di Hunstanton, nel Norfolk, un edificio con un’estetica da magazzino e un certo “je-m’en-foutisme”, come scrisse il critico Reyner Banham in un articolo del 1955 pubblicato sulle pagine della Architectural Review: la struttura di base, infatti, era lasciata a vista, non c’erano finiture interne e i materiali da costruzione stavano in bella mostra insieme alle tubature. Hunstanton era davvero fatta di quello di cui sembrava essere fatta – ovvero vetro, mattoni, acciaio e cemento – e non c’era nient’altro da vedere se non il modo in cui funzionava. Per molti architetti questo approccio si rivelò liberatorio e presto il Brutalismo si diffuse in Inghilterra e nel resto del mondo. Esempi di architetture brutaliste sono la facoltà di Storia dell’Università di Cambridge progettata da James Stirling, il Barbican di Londra a opera dello studio Chamberlin, Powell e Bon, il National Theatre di Denys Lasdun, ancora a Londra, ma anche la Scuola d’Arte e d’Architettura di Yale di Paul Rudolph e l’ex Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò a Milano. Persino l’utopia metabolista del giapponese Kisho Kurokawa e della sua Nakagin Capsule Tower, realizzata a Tokyo nei primi Anni 70 e poi demolita nel 2022, può essere fatta risalire al Brutalismo. Per l’allora principe Carlo questi edifici erano più offensivi delle macerie lasciate dalla Luftwaffe. Del National Theatre disse una volta che era un modo per costruire una centrale nucleare nel centro di Londra senza che nessuno si opponesse. Il Modernismo era diventato così elitario e individualista da sfociare in un simile gusto popolare per gli edifici in calcestruzzo a vista? E perché un’epoca come la nostra, afflitta dalla gentrificazione, con il verde che reclama spazio, è tornata a interessarsi al Brutalismo? Una risposta potrebbe essere trovata nell’aspirazione di questo movimento a fondare una dimensione etica prima che estetica. Il Brutalismo delle origini affrontava questioni sociali e urbanistiche con l’imponenza della sua scala e il radicalismo dei materiali lasciati a vista. Forse, quando gli edifici più rappresentativi delle città odierne sono lussuose torri di vetro, è confortante pensare a un tempo in cui si ingaggiavano i migliori architetti in circolazione per costruire biblioteche e case popolari.

dall’account instagram @brutalistplants di olivia broome

il libro brutalist plants, documenta l’incontro tra piante e brutalismo.
Nonostante i buoni propositi, il Brutalismo passò di moda rapidamente e già negli Anni 70 gli ideali sociali furono rimpiazzati dai deliri architettonici del Postmodernismo. A causa del tempo e dell’incuria, nell’ultimo mezzo secolo molti edifici brutalisti sono stati abbandonati e quelli che non sono ancora stati demoliti rischiano di esserlo presto. Ma se fino a qualche tempo fa in pochi sembravano dispiacersene, oggi al contrario questi “mostri di cemento” godono di grande popolarità, non solo tra gli studiosi. Agli appelli delle associazioni che difendono il Brutalismo – e che hanno tra i firmatari anche celebri architetti, come nel caso della campagna per salvare i Robin Hood Gardens di Alison e Peter Smithson a Londra – si sono aggiunte infatti piattaforme digitali che ne riscoprono il valore. Tra queste c’è Sos Brutalism, un database in continua crescita che al momento conta oltre 2 000 edifici, inclusa una red list di quelli particolarmente a rischio. L’iniziativa ha preso piede soprattutto sui social con l’hashtag #sosbrutalism, ma si è tradotta anche in una mostra ospitata dal Deutsches Architekturmuseum di Francoforte (e successivamente da altri musei) e in un volume edito da Park Books. Per gli amanti del Brutalismo i social si sono quindi rivelati dei compagni inseparabili. Si veda anche il caso dell’account Instagram @brutalistplants, che documenta l’incontro – spiazzante, inaspettato – tra natura e mostri di cemento e che qualche tempo fa si è tradotto in un libro pubblicato da Hoxton Mini Press. Tra gli edifici più “instagrammati” invece spicca la Torre Velasca: il grattacielo di Milano progettato dai Bbpr e terminato nel 1958, simbolo della ripresa italiana post-bellica. Emblema dello skyline della metropoli lombarda, questa torre dall’insolita forma “a fungo” (che qualcuno chiama anche “il palazzo con le bretelle”, per via delle sue travi oblique) vive oggi un momento di eccezionale rinascita. L’edificio è stato oggetto di un lavoro di restauro e rigenerazione urbana in fase di ultimazione guidato da Hines, società globale di investimento, sviluppo e gestione immobiliare. L’intervento, a cura dello studio Asti Architetti, ha restituito alla facciata il suo caratteristico colore rosa-grigio, rivolgendosi poi alla piazza circostante, riqualificata con aree verdi e panchine in legno che l’hanno trasformata in uno spazio da vivere. Ma la Velasca non è l’unico edificio brutalista a essere oggetto di attenzione: ancora a Milano, il Comune ha da poco presentato un progetto di restauro per l’ex Istituto Marchiondi Spagliardi realizzato nel 1957 da Vittoriano Viganò. Il complesso, nel quartiere di Baggio, ospitò sino alla fine degli Anni 70 ragazzi “difficili” o con problemi caratteriali. Adibito per un breve periodo a centro di formazione professionale, fu definitivamente abbondato e da anni nessuno se ne interessava più. Con questo progetto (44,5 mln di € il costo) si prevede di dare nuova vita alla struttura trasformandola entro il 2028 in una residenza universitaria rivolta in particolare a studenti di facoltà artistiche, ma aperta anche ad altre figure, come ricercatori e giovani creativi

per cani e per i loro padroni: kennels, hotel pet friendly cinese disegnato da atelier gom.

nella città cinese di aranya, il “pet hotel” kennels interpreta in modo innovativo l’estetica brutalista, di cui riprende l’uso del calcestruzzo a vista.
Architettura per cani
La rinascita del Brutalismo non si limita però alla salvaguardia e al recupero dei suoi edifici simbolo: molti architetti contemporanei ne reinterpretano i principi adattandoli alle sfide del costruire odierno. Il nuovo Brutalismo mescola elementi tradizionali come la monumentalità e l’aspetto materico con tecnologie innovative. Il calcestruzzo, che soprattutto nei Paesi in via di sviluppo è ancora il materiale più utilizzato (se non, in alcuni casi, l’unica strada percorribile), ha oggi una durabilità maggiore rispetto a quello di un tempo. Questo permette di prolungarne le qualità estetiche oltre che strutturali. La modularità è una propensione che caratterizzava l’architettura brutalista degli inizi e si ritrova in un progetto come quello di Kennels, un hotel per cani e loro padroni realizzato ad Aranya, nella Cina settentrionale, da Atelier Gom. Nato da un’idea estemporanea del proprietario, Kennels è stato studiato per rispettare il comportamento degli animali, che non sempre familiarizzano tra loro, mettendo al centro il benessere di tutti, persone comprese. Anziché adottare la tradizionale disposizione alberghiera con il corridoio centrale, gli architetti hanno optato per un modello a corte dove le stanze sono blocchi indipendenti con accesso privato. Per proteggere la struttura dalle intemperie (la città sorge sulla costa), si è impermeabilizzato il calcestruzzo, che si rivelato essere il materiale più indicato per questo tipo di progetto dedicato agli animali. Nella città di Al Muharraq, in Bahrain, si trovano invece i quattro parcheggi realizzati dall’architetto svizzero-brasiliano Christian Kerez (già curatore del Padiglione svizzero della Biennale di Architettura di Venezia del 2016) per il Pearling Path, antico insediamento iscritto nella lista dei Patrimoni mondiali dell’Unesco e oggi al centro di un programma di riqualificazione urbana. Interpretando in modo innovativo l’estetica brutalista, fatta anche di forme fluide, Kerez ha dato vita a una serie di edifici costituiti da solette in calcestruzzo che si fondono l’una nell’altra e sembrano curvarsi nell’aria, creando un’esperienza spaziale in continua evoluzione. All’architetto belga Glenn Sestig, amato da creativi e artisti come Raf Simons e Luc Tuymans, si deve invece la realizzazione di alcune abitazioni con una predilezione per i materiali grezzi (a partire dalla sua casa-studio, un padiglione di cemento situato a Deurle, nei pressi di Gand, e originariamente creato dall’architetto fiammingo Ivan Van Mossevelde per ospitare le opere di un collezionista privato). Tra gli altri progetti di Sestig figura la scultorea villa – di nuovo in cemento – realizzata a Ostenda per la famiglia Pringiers, amante dell’arte e del design e già proprietaria di un’abitazione disegnata dal giapponese Tadao Ando. Leggerezza e gravità dell’architettura brutalista si sfidano nelle opere dell’artista pachistano-americana Seher Shah. Laureata in Architettura alla Rhode Island School of Design, Shah è autrice della serie di disegni Brutalist Traces, realizzata in collaborazione con il fotografo di architettura Randhir Singh. Invertendo il procedimento che traduce il disegno in progetto, questi lavori riportano gli edifici al loro movimento di matita, trasformandoli in immagini-fantasma: “Sono affascinata da alcune strutture brutaliste per il rapporto di forza che si instaura tra oggetto, paesaggio e scala. L’uso di forme ripetitive e l’ideologia utopica sono un’ispirazione per l’edilizia sociale, ma c’è qualcosa di contraddittorio nella loro natura”, ha spiegato l’artista. Non a caso, qualche tempo fa le opere sono state esposte alla Ikon Gallery di Birmingham, città rinomata per la sua architettura brutalista, all’interno della collettiva Horror in the Modernist Block, che mostrava come questi edifici – la violenza e il trauma della loro costruzione e distruzione – facciano spesso da sfondo a storie di orrore e distopia. Lo confermano anche diversi film: da Arancia meccanica, girato nel quartiere londinese di Thamesmead, fino al recente The Brutalist di Brady Corbet, con Adrien Brody nei panni dell’architetto ebreo László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947, dopo essere sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti.

Fotogrammi da the brutalist di brady corbet, protagonista adrien brody.
Tutti a tavola…
Ma il Brutalismo può essere anche una fonte di ispirazione per la progettazione di oggetti. Succede ancora in Belgio, con gli arredi del designer Marc Meeuwissen. La sua serie Brutalista, composta da un tavolo e una coppia di sedie, è realizzata servendosi soltanto di pannelli di legno e – come attrezzi – di una sega a mano. È questa “l’idea brutale” alla base del progetto: “Le restrizioni rendono più facile fare delle scelte durante il processo di progettazione, ma sfidano anche a esplorare al massimo le possibilità che si hanno. Questo approccio mi ha portato a creare oggetti funzionali monumentali, in cui è chiaramente visibile una preferenza per l’architettura brutalista», racconta il designer. L’idea che seguire regole ferree accresca il potenziale creativo è all’origine anche della cucina proposta dall’artista Carsten Höller nel suo ristorante Brutalisten a Stoccolma. Qui infatti è ammesso cucinare un solo ingrediente alla volta, meglio se generalmente trascurato, difficile da reperire o addirittura raro; la decorazione è bandita e si possono aggiungere solo acqua e sale, tranne che nei piatti “brutalisti ortodossi”. Come il movimento architettonico si proponeva di stabilire dei rapporti emotivi con le materie prime, allo stesso modo la cucina brutalista di Höller non si basa sulle ricette, bensì sull’esperienza vissuta dalle persone. Non è un caso isolato: a Denver, in Colorado, ha di recente aperto anche Brutø, ristorante guidato dallo chef costaricano Byron Gomez (e già premiato con una stella Michelin) che segue la filosofia dello spreco zero e che, come Brutalisten, promette un piacere intenso: quello che soltanto la buona architettura può dare.


alcune proposte culinarie di brutø, ristorante aperto a denver, in colorado