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Parlare di crisi alla Scuola di Fallimento, a Modena

«Fallire fa schifo». Detta dalla fondatrice di un istituto chiamato Scuola di Fallimento, la frase ha un effetto confortante. C’è sempre il timore di sentirsi un po’ retrogradi nel confessare di non saper apprezzare il potenziale trasformativo di una caduta. Anzi, di rifuggirla come la peste. «È normale: fallire significa fatica, delusione e dolore», continua Francesca Corrado, «ma siccome capita a tutti, la questione diventa come mettere a frutto quell’esperienza dolorosa. Perché non è che facendo un errore s’impara automaticamente. Al contrario, senza un’analisi approfondita, c’è il rischio che il cervello tenda a ripeterlo». È uno dei motivi per i quali Corrado ha fondato la sua scuola a Modena nel 2017. «Ho realizzato sulla mia pella che in Italia c’è poca cultura dell’errore. Quando mi è successo di sbagliare, inizialmente sono cascata anch’io nella trappola di vergognarmi, nascondermi e dare la colpa agli altri, senza riflettere veramente su quel che era accaduto». Se avesse trovato qualcuno in grado di aiutarla a riflettere, probabilmente Corrado avrebbe risparmiato tempo ed energie. Oggi questo qualcuno è diventata lei stessa, insieme a una squadra trasversale di professionisti che l’aiutano a tenere corsi, workshop e offrire consulenze ad aziende e privati di tutte le età su come prevenire alcuni errori e imparare da altri. Una squadra di “agenti del cambiamento“, come li definisce lei, formata da psicologi, attori, giornalisti, neuroscienziati, avvocati, motivatori che aiutano a far tesoro del vecchio adagio “sbagliando s’impara”, senza banalizzarlo come una facile assoluzione per continuare a commettere errori.

la divina pink punk all’atelier dell’errore.

«Spesso nei Paesi di matrice cattolica come l’Italia c’è una paura atavica di fallire legata alla cultura religiosa. In quelli protestanti, a fronte di una maggiore attribuzione di responsabilità individuale, c’è più disponibilità a concedere una seconda possibilità. In questo conta anche la ricchezza del Paese: dove il reddito pro-capite è più alto, solitamente la tolleranza al fallimento cresce. Da noi invece si tende a stigmatizzare l’errore, a vederlo come indice d’incompetenza. In realtà, chi ha successo è semplicemente più bravo a trasformare gli errori in opportunità». Un po’ come è capitato a lei una decina d’anni fa, quando una serie di errori l’hanno portata dal dirigere una start-up e insegnare Storia del pensiero economico all’università, al trovarsi senza lavoro, stipendio e prospettive. Per sei mesi si è chiusa nel silenzio, senza raccontare niente a nessuno. «Davo la colpa agli altri, ma allo stesso tempo temevo di essere giudicata, dal momento che prima ero una persona ambiziosa, che aveva vinto premi e borse di studio. Pensavo mi prendessero tutti per un bluff, una che era andata avanti solo a colpi di fortuna». Non sapendo cosa fare, Corrado decide di rientrare nella Calabria natìa, dove nel frattempo il padre anziano si è ammalato di Alzheimer. Ha perso relazioni, soldi, opportunità ed è convinta di non aver più nulla da offrire. Ma il confronto con la malattia si rivela fondamentale per innescare un cambio di prospettiva: dal sentirsi sprofondata in una situazione insormontabile, capisce di essersi schiantata su un pavimento: molto duro, certamente, ma da cui, con volontà e fatica, è possibile alzarsi e ripartire. La prima cosa che fa è tornare a Modena per organizzare una “festa dei fallimenti”, dove riunisce gli amici e racconta senza remore quel che le è accaduto. Più parla della sua crisi, più si rende conto che molte persone rifiutano anche solo di pronunciare la parola “fallimento”, quasi fosse un tabù, un’onta, una profezia capace di autoavverarsi. Questo atteggiamento la incuriosisce, ne comprende le radici, ma ne intuisce anche le insidie. È allora che ricomincia a studiare. Libri e corsi per sviscerare a fondo la psicologia dell’errore. Stando a contatto con il padre, a cui la malattia aveva ormai tolto l’uso della parola, in Calabria aveva riscoperto il gioco come mezzo di comunicazione. Da lì riparte per costruire il suo nuovo percorso. Prima fonda l’associazione Res Play per la promozione del gioco educativo. Il passo successivo è più ambizioso: nasce la Scuola di Fallimento, che basa la sua metodologia sul gioco, metafora della realtà adattabile a tutte le età, che permette di inserire facilmente le cause degli errori più comuni, come le regole imposte, i vincoli di tempo (tipo la clessidra), la casualità (il dado).

la fondatrice francesca corrado nel carcere di bollate, alle porte di milano.

nella biblioteca di fomigine (modena).

Insegnare a distinguere

Dopo prove, errori ed aggiustamenti trova finalmente la prima azienda che crede nel suo progetto e finanzia un corso per i propri dipendenti. Da allora, Corrado ha perfezionato una serie di percorsi di apprendimento, pensati per professionisti o studenti dai dieci anni in su. L’intento non è fare l’apologia del fallimento ma insegnare, ad esempio, a distinguere fra diversi tipi di errore. «Abbiamo creato una scala di misurazione per valutare i fallimenti: ci sono quelli interamente negativi, che vale la pena individuare per cercare di prevenire, e quelli invece positivi da cui possiamo imparare qualcosa». Fra i primi, quelli causati da sciatteria, fretta o convenienza. Fra i secondi, quelli che potremmo soprannominare “eureka”, frutto del caso, della serendipità: un esempio classico è quello del Post-It, nato dall’intento di ottenere una colla resistentissima andato male: il risultato fu una colla mediocre. La differenza in questo caso la fece la capacità di analizzare la deviazione che ha portato a mancare l’obiettivo, per capire cosa di buono poteva suggerire, ovvero un collante perfetto per attaccare temporaneamente foglietti gialli promemoria. Altri errori positivi sono quelli detti “di frontiera”, ovvero nati dalla sperimentazione. La tecnologia deve moltissimi dei suoi progressi a questo tipo di sbagli. Il Wd40, oggi fra i lubrificanti più diffusi al mondo, prende il nome dal fatto che la formulazione chimica vincente venne scoperta solo al quarantesimo tentativo. E l’azienda produttrice, la californiana Rocket Chemicals, fu talmente fiera del processo di errori che la portò al successo da cambiare nome per assumere quello del prodotto stesso. La leggenda vuole che le prime scarpe a dare fama alla Nike negli Anni 70, le Waffle Racer, siano nate quando Bill Bowerman fuse per sbaglio della gomma nella piastra usata per cucinare i waffle a casa, creando così una suola tassellata leggerissima. Mentre l’aspirapolvere senza fili Dyson sarebbe emerso dalle ceneri di 5 217 fallimenti. Le potenzialità innovative insite nel processo per prove ed errori fanno sì che, a volte, le aziende decidano addirittura di lanciare sul mercato prodotti che sanno già essere migliorabili, nella speranza che sia l’utente a fornire loro un feedback. Un modo economico per ottenere una grande mole d’informazioni, che permette di progredire abbassando i costi. «La Scuola di Fallimento allena le persone ad analizzare gli errori, evitando quelli prevenibili e lavorando sugli altri per trarne beneficio nella vita personale e professionale». Finché le cose vanno bene, spesso manca l’interesse o il desiderio di modificare lo status quo. Le crisi sono occasioni per uscire dagli schemi. Questo non significa imparare ad amare i fallimenti o pensare che gli sbagli siano meravigliosi. Significa non cedere alla tentazione di nasconderli, ma riconoscerli per assumersene la responsabilità e spremere quel (poco o tanto) di utile che contengono.

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