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fragilità maschile

Amici fragili: la necessaria invenzione della debolezza maschile

In un monologo di stand-up comedy di qualche mese fa raccontavo di quella volta in cui venni accusata da un uomo, in un messaggio privato inviatomi su Instagram, di essere rea di dick-shaming. Galeotta fu la pubblicazione di un reel-estratto-dello-spettacolo in cui ironizzavo sui micropeni da me definiti à la Battiato come “dita di alieni che Dio aveva messo a dei malcapitati uomini per far capire al sesso femminile l’esistenza di una vita oltre la Terra”. Continuavo poi elencando svariate provocazioni-nazional-popolari, come quella riguardante il fatto che il verso di una famosissima canzone di Giorgia “Sono gocce di memoria queste lacrime nuove” fosse in realtà una raffinata metafora visivo-psicoanalitica per definire l’eiaculazione del tutto anti-darwiniana di un pene sottodimensionato, e così via. La conclusione paradossale del mio monologo fu che gli uomini, avendo ormai iniziato a sentirsi offesi per le cose più disparate, avevano fatto un’indebita appropriazione culturale del concetto di fragilità, che fino a questo preciso momento storico era stata una prerogativa emozionale di noi donne; i maschi avevano così iniziato a vampirizzare la nostra vulnerabilità, insieme a merci più banali nonché spiccatamente materiali come lo smalto nero sulle unghie, i jeans skinny e le creme idratanti. Il filosofo francese Henri Bergson nel suo breve quanto puntuale saggio sul comico intitolato Il riso, ha affermato come quest’ultimo “anestetizzi il cuore per arrivare direttamente all’intelletto”; che, semplificato, significa che per far ridere di qualcosa in maniera intelligente bisogna averla compresa benissimo. Il mio sketch, infatti, non voleva accodarsi al body-shaming più becero, quanto dire che gli uomini e le donne stavano diventando sempre più uguali e la prova del nove era che ormai potessero ironizzare in maniera scorretta l’uno sull’altro e viceversa (Dio solo sa quanto adoro le scorrettissime battute di Louis C.K. sulle ragazze giovani) e che il discrimine per capire quale fosse il comico/a più bravo ormai era solo uno: l’arguzia. Non è un caso che sia stato Bergson, un filosofo, a darci questa versione ontologica così giusta del comico; quello che è affascinante della filosofia non è tifare per l’uno o per l’altro sistema, quanto capire la struttura del sistema attraverso il quale ogni singolo pensatore giunge a tesi simili o diametralmente opposte; che, semplificato, significa che il valore intellettuale sta nell’originalità del processo, non nella conclusione a cui giunge. “La società degli uomini è una società comica”, così risponde Jean-Paul Sartre alla compagna di una vita Simone de Beauvoir intorno ai 70 anni; non può più leggere né tantomeno scrivere, la quasi cecità glielo impedisce. La sua tesi consiste nel fatto che gli uomini sono naturalmente più ironici perché possono ricoprire più ruoli fasulli mentre le donne recitando, contro la loro volontà, la parte delle oppresse sono costrette a essere meno comiche e più lucide e aggressive. Dice Sartre in una frase così chiara e distinta di questa lunghissima intervista: “Quando attribuivo il mio maschilismo a una qualità personale e non a un’azione del mondo sociale su di me, ero comico”. È proprio la mancata comprensione del legame tra ciò che si è e la società ad aver reso gli uomini comici e a non aver reso le donne tali fino a ora, a detta di Sartre; e quindi cosa succederebbe se ci comportassimo come si sono comportati gli uomini finora? Se fossimo eccessivamente audaci perché pensiamo che è un tratto della nostra personalità e non una risposta a secoli di iper-sottomissione? Succede quello che è successo a me; ovvero, essere accusate dagli uomini in maniera passivo-aggressiva, come abbiamo fatto noi in certe occasioni, mancando di capire, però, che la nostra fragilità è stata finora un aspetto strutturale dovuto alla società e non una conquista per astrarci dal carattere testicolare della stessa, come nel loro caso. Questo doppio movimento chiasmico tra il vulnerabile e la forza, però, può portare i due sessi a un inaspettato punto d’incontro attraverso la reciproca comprensione delle proprie complessità e del modo idiosincratico, e questo sì è profondamente comico, nel modo in cui si stanno esternando negli ultimi anni. Uno di questi, dopo la mia filippica sui micropeni, è sicuramente il nuovo dominio lifeisbetterafterdivorce.com.

fragilità maschile

illustrazione di Carolina Altavilla

Marco, ingegnere di formazione, milanese, impiegato ad alti livelli in un colosso della pubblicità, ha deciso di aprire a febbraio, a 55 anni, un portale in cui aiuta le persone che come lui hanno affrontato un divorzio offrendo loro, con i suoi pezzi e approfondimenti, «una visione proattiva e positiva del divorzio anche agli uomini: perché generalmente la narrazione del divorzio è dal punto di vista femminile». Questa affermazione di Marco mi ha fatto molto pensare anche a quello che cerco di fare io con la comicità; cioè, usare un certo tipo di stilemi e sboccataggini che finora sono state solo ad appannaggio degli uomini. Mentre lui continua a parlare, mi chiedo se questa necessità di fagocitare linguaggi che fino a questo momento ci sono stati preclusi sia una fase di passaggio o un qualcosa che ci condurrà a un’ibridazione così fitta al punto da non essere più necessario metterla a tema. «Se racconto cosa faccio e chi sono (un runner che ama viaggiare impiegato in una multinazionale) sono tutti entusiasti, mentre se dico che sono divorziato, la prima cosa che mi viene detta è: ah, mi dispiace», mi dice, e io gli rispondo: «guarda non è così diverso quando dico chi sono, che ho scritto due libri e poi aggiungo che sono single». Indipendentemente dalle nostre età e dal nostro genere, capisco che Marco è un alleato valido per conseguire una vera parità di genere perché si inserisce nel famoso paradigma salvifico – l’unico a mio avviso – della complessità. Nella nostra lunga chiacchierata, scopro anche dell’esistenza dei divorce party negli Stati Uniti (un vero successo commerciale), mentre in Italia, con il suo substrato cattolico, faticano a trovare terreno fertile perché il divorzio è coessenziale a un’idea di sconfitta più che di rinascita. Negli Usa c’è addirittura una scrittrice, tale Christine Gallagher, che ha scritto un manuale su come pianificare una festa di divorzio di successo, che introduce una nuova figura professionale, il divorce planner: oltre a organizzare alla perfezione l’addio al matrimonio, offrirebbe anche un supporto psicologico per il “dopo”. A me viene subito in mente una figura a metà tra Enzo Miccio e Paolo Crepet, un “minotauro professionale” che nonostante la mia fervida immaginazione faccio davvero fatica ad immaginarmi. Arriviamo alla conclusione che la cosa da abbattere, in questo Trono di Spade che è diventata la lotta dei generi dopo il #MeToo, sia il concetto in sé di cliché: gli uomini non sono tutti puttanieri, le donne non sono tutte suore; io, se mai avrò un figlio, vorrò un uomo che chiede il congedo parentale perché le scrittrici senza figli a carico sono state, a ora, le più geniali della storia della letteratura. Quando schiaccio il cerchietto rosso della cornetta sul display del mio iPhone, con la stessa frenesia con la quale cerco su Instagram il profilo di un tipo carino che ho conosciuto al bar appena poso la borsa all’ingresso, vado a leggermi gli articoli di lifeisbetterafterdivorce.it. Dalla playlist da ascoltare dopo il divorzio fino alla Guida per le relazioni tossiche dopo i 40, passando per il dubbio pseudo amletico Cani e gatti sono meglio dei nostri ex?, capisco che Marco è uno davvero ironico. “Bergson aveva ragione!”, urlo tra me e me, sotto lo sguardo attonito del mio cane (un cocker spaniel preso dopo una rottura). Scrivo a Marco poco dopo ringraziandolo e invitandolo a un mio spettacolo che si sarebbe tenuto pochi giorni dopo. Viene, compra il mio libro e mi porta in dono il cappellino con l’immancabile slogan da lui coniato (è il primo regalo che mi ha fatto un uomo nel 2024). Gli propongo di organizzare il primo evento live per la sua community con una mia stand-up; Marco mi guarda serissimo e pronuncia le seguenti parole in tono sacrale: «Sì, Giada. Lo voglio». Scoppiamo a ridere entrambi. Tra me e me penso che la crisi della monogamia e la sua narrazione postmoderna non si sarebbero potuti meritare un happy ending migliore. To be continued…

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