Stephen Graham. Come siamo caduti così in basso
Se l’ascensore sociale, dovunque nel mondo, non funziona come dovrebbe, per i ricchi è tutta un’altra storia. Per loro la mobilità in verticale è molto più agevole e frequente, come pure lo è la sua traduzione spaziale. Se non occupano superattici o vivono in grattacieli prestigiosi, gli happy few svettano ancora più in alto, su aerei privati, su elicotteri, o addirittura su razzi inviati nello spazio dove presto i milionari potranno permettersi voli privati. Non è un caso se l’associazione tra avere un alto reddito e frequentare i “piani alti” rientra ormai nell’iconografia del successo. Basta pensare a emblemi dell’affermazione sociale come la sfarzosa Trump Tower, costruita dell’ex presidente Usa o, per guardare all’Italia, ai costosissimi appartamenti nel Bosco Verticale o all’attico nella milanese City Life di recente acquistato dalla coppia ( ora scoppaita ) Ferragni-Fedez. Stephen Graham, docente di sociologia urbana all’Università di Newcastle, si è però preso la briga di capire perché l’accumulo di denaro, sia esso da parte di uno Stato, di una corporation o di un contribuente, vada di pari passo con la costruzione e l’occupazione di grattacieli e torri. La spiegazione, ha risposto Graham nel suo saggio Vertical, edito da Verso Books, è che nell’ultimo secolo si sia verificata una “zonizzazione” e progressiva divaricazione degli spazi urbani in base al reddito: l’esercito, lo stato e le élites si sono impadroniti dei cieli, tramite droni, satelliti, jet privati ed elicotteri per bypassare il traffico (al punto che a San Paolo dal 2004 è stato istituito un controllo del traffico aereo urbano), mentre alla maggioranza dei cittadini è rimasta la superficie della città, congestionata dal traffico, intasata dai rifiuti, vulnerabile a vandalismi e azioni criminali. La storica “lotta di classe”, insomma, non si manifesta più sul piano orizzontale delle città, opponendo il centro dei benestanti alla periferia degradata, ma sull’asse verticale che, come un termometro edilizio, segna le differenze in termini di status, diritti, influenza.
il nuovo corviale (o “il serpentone”) di mario fiorentino (roma, 1975-1984).
cité radieuse fu ideata come un miniquartiere, con scuola, piscina, spazi condivisi
A determinare questo ribaltamento prospettico è stata in primo luogo una buona dose di ingenuità. Almeno fino ai primi del ’900, ma ancora nell’immediato secondo Dopoguerra, i palazzoni multipiano erano destinati al proletariato, rassegnato a sobbarcarsi rampe di scale. Grazie alle nuove possibilità offerte da strutture in acciaio e ascensori, però, tra il 1930 e il 1970 ambiziosi architetti, suggestionati dalle idee di Le Corbusier, idearono complessi di edilizia popolare in cui le masse dei lavoratori si sarebbero potute elevare fisicamente e moralmente. Questi propositi avrebbero potuto essere raggiunti se la manutenzione degli edifici fosse stata continua o se ci si fosse curati delle abitazioni. Ma questi palazzoni divennero spesso dominio di criminali e abusivi, incuranti dei guasti perenni agli ascensori, come capita tuttora nelle periferie se abbandonate dalle amministrazioni pubbliche. Finché, nello stesso anno in cui, in Italia, Mario Fiorentino progettava il controverso “Serpentone” del Nuovo Corviale, negli Stati Uniti il critico Charles Jencks decretava: “L’architettura moderna è morta a St. Louis, Missouri, il 15 luglio 1972 alle 15:32”. Si era demolito, quel giorno, il complesso Pruitt-Igoe di Minoru Yamasaki – autore anche del World Trade Center di New York –, utopia urbana divenuta ormai un ghetto per criminali. Tramontava così il sogno emancipatore dell’architettura moderna. «Il fallimento di quel progetto», spiega Graham, «inaugurò una prassi speculativa perpendicolare che è tuttora in corso, favorita dagli investitori, che non pagano i terreni sulla base dell’altezza di ciò che vi costruiscono, e dalle autorità locali, desiderose di acquistare rilievo rispetto a una nuova dimensione estetica: quella dettata da Google Earth». L’ubiquità delle immagini rielaborate dai satelliti marca lo slittamento da una visione del mondo dominata da una prospettiva orizzontale a una verticale, in cui le corporation, gli Stati e le città si preoccupano di come i loro spazi appaiono dall’alto. I grattacieli sono giganteschi loghi, immagini del brand dei Paesi che li costruiscono, sostiene il superagente immobiliare William Murray. Aggiungendo che creano una skyline, un segno di riconoscimento, un marcatore culturale che ci aiuta a ricordarli, oltre che a indicarne la presenza sul palcoscenico mondiale. Come dimostrano cattedrali nel deserto come il Burj Khalifa di Dubai o la Jeddah Tower dell’Arabia Saudita, basta un edificio di altezza record per fare di un non luogo un posto degno di attenzione. Ma se 20 anni fa i grattacieli appartenevano quasi esclusivamente a società, dopo l’11 settembre e la distruzione delle Twin Tower come simbolo della decadenza morale dell’Occidente, nel tempo le corporation hanno scelto il “basso profilo”: ora gli edifici iconici sono residenziali. Graham parla di una “privatizzazione del cielo”: se non volano, i “Paperoni” si spostano su sopraelevate riservate, hanno ascensori a uso esclusivo e persino lussi come lo sky garage, l’autorimessa innalzabile del condominio 200 Eleventh Avenue di New York che parcheggia Ferrari e Porsche altezza attico, così da poterle ammirare al riparo da sguardi indiscreti. In compenso, i ricchi sono liberi di guardare, ovviamente dall’alto al basso, il resto dell’umanità: una massa di uomini stipati nelle città dove entro il 2050 confluirà il 75% della popolazione mondiale.
a londra, in 12 anni, sono stati richieste 7 328 proprietà interrate.
Neppure gli scantinati e le rimesse, però, a quel punto, potranno ospitare i disperati in cerca di un alloggio nelle zone centrali delle future megalopoli. Il citato Graham ha condotto un’indagine nel 2021 nei quartieri londinesi abitati dagli “High Net Worth Individuals” e ha scoperto che negli ultimi 12 anni sono stati richiesti permessi per edificare 7 328 proprietà interrate, che prevedono da uno a tre piani sotterranei dove saranno realizzati palestre, piscine, cantine, sale cinema, alloggi per la servitù. Per capirne l’estensione, il professore ha calcolato che in 15 anni siano stati scavati sotto Londra seminterrati rimuovendo materiali per circa 1 782 mln di metri cubi di terra. Per fare un confronto, si tratta di una quantità di materiale pari a 12 volte l’interno della Cattedrale di St Paul, compresa la sua grande cupola, che ammonta a 152 000 metri cubi.
Il paradosso è che questi spazi sotterranei sono così immensi e profondi che, finiti i lavori, anziché “ripescare” con una gru gli escavatori utilizzati, è più economico seppellirli, coprendoli prima con uno strato detto “hardcore” – una miscela di sabbia e ghiaia – seguita da uno strato di cemento, così come è stato fatto con le macchine perforatrici abbandonate sotto il tunnel della Manica durante la sua costruzione.
Secondo il periodico inglese New Statesman da 500 a 1 000 escavatori “perfettamente funzionanti e probabilmente ancora utilizzabili” sarebbero stati “pietrificati” così sotto le case londinesi di pregio. Dopo essersi appropriata dell’alto dei cieli, insomma, l’élite s’inabissa, o come scrive Graham, si “bunkerizza”, per aggirare i divieti comunali di costruzione e godersi la sua ricchezza al riparo di occhi indiscreti. È una sorta di traduzione tridimensionale e ipogea del quiet luxury, lo sfarzo che non si fa notare e che regala ai privilegiati una libertà impensabile per tutti gli altri abitanti di una capitale mondiale: avere ciò che serve a portata di mano senza dover fare i conti con traffico, problemi di sicurezza o il degrado eventuale. Anche quando non si librano verso l’alto, ma sprofondano sotto la superficie terrestre, gli ultraricchi riescono sempre a collocarsi su un piano diverso da quello degli altri umani. Bruce Wayne alias Batman, insomma, insegna.