Neurodiritti, menti e potere
Dallo scorso autunno, grazie a una norma rivoluzionaria, i cittadini cileni sono i primi al mondo a godere di un nuovo tipo di diritti umani: i “neurodiritti”. Si tratta del diritto alla privacy mentale, all’identità personale, al libero arbitrio, alla parità di accesso alle tecnologie di miglioramento cognitivo e alla protezione contro i pregiudizi algoritmici. Delle varie forme di libertà neuronale previste, quella più a rischio al momento è la prima, ossia la facoltà di mantenere la riservatezza su cosa pensiamo, poiché le tecnologie che “decifrano” i nostri pensieri esistono già. Da qualche anno, infatti, tramite una semplice risonanza magnetica funzionale, gli psicologi cognitivi possono dedurre se una persona ha pensieri depressivi o no; possono vedere quali concetti uno studente ha imparato confrontando i suoi schemi cerebrali con quelli del suo insegnante e indovinare, con crescente precisione, a quale immagine sta pensando una persona. Quando hanno scansionato il cervello di alcune “cavie” che stavano leggendo il racconto di J.D. Salinger Pretty Mouth and Green My Eyes, in cui non è chiaro fino alla fine se un personaggio abbia o meno una relazione, gli scienziati hanno compreso dalle scansioni cerebrali verso quale interpretazione i lettori si stavano orientando e quando avevano cambiato idea. E grazie a un caschetto da mettere in testa, dal 2017 gli esperti del progetto “Brain to Text” di Facebook sono in grado di convertire i pensieri in 100 parole al minuto, scritte sullo schermo di un computer. Nel 2019 sempre Facebook ha acquisito per 1 miliardo di dollari la società CTRL-Labs, che ha sviluppato un braccialetto che traduce l’attività neurale in azioni compiute da un computer o da un avatar robotico. L’australiana Synchron ha sperimentato con successo impianti cerebrali che consentono alle persone di inviare e-mail solo con il pensiero, e nel luglio 2021 è diventata la prima azienda al mondo, davanti a concorrenti come Neuralink di Elon Musk, a ottenere l’approvazione dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense per condurre studi clinici sulle interfacce computer-cervello, cioè sui dispositivi che collegano il cervello di una persona a un calcolatore. Con simili precedenti, i politici cileni non sono i soli a temere gli sviluppi della neurotecnologia.
Prima dei legislatori e degli artisti sono stati gli scienziati a dare l’allarme.
La nuova Carta dei diritti digitali, adottata nel luglio 2021 in Spagna, include una sezione sui neurodiritti e lo scorso settembre il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha incluso la neurotecnologia in un elenco di “questioni al limite” da considerare. E il dibattito è già tracimato nell’ambito culturale: nel suo nuovo romanzo, La casa di Marzapane (Mondadori), la scrittrice Jennifer Egan ha immaginato che un’irresistibile tecnologia chiamata “Riprenditi l’Inconscio” permetta di accedere ai ricordi altrui in cambio della condivisione dei propri mentre il regista tedesco Werner Herzog dovrebbe presentare nel 2022 Theatre of Thought, un documentario sui neurodiritti basato su una serie di allarmanti conversazioni con il neuroscienziato di Princeton Uri Hasson. Ben prima dei legislatori e degli artisti, peraltro, sono stati gli scienziati a dare l’allarme: nel 2017, 25 esperti in intelligenza artificiale, bioetica e diritto, riunitisi nel cosiddetto Morningside Group, hanno proposto linee guida etiche per le neurotecnologie: «Perché il cervello genera la mente, la mente è ciò che ci rende umani, e quindi qualsiasi tecnologia che incida sul tessuto che genera quelle capacità mentali e cognitive avrà un impatto sul nucleo di noi stessi, sulla nostra umanità», ha spiegato il neurobiologo Rafael Yuste, docente alla Columbia University e capo della NeuroRights Foundation di New York, il primo think-thank istituzionale sui neurodiritti. E qui iniziano i problemi: perché stabilire un diritto, o indicare linee guida, non esclude comunque ogni rischio futuro. «Oggi la neuroscienza è simile a ciò che era l’energia atomica negli Anni 50», ha dichiarato il senatore Guido Girardi, relatore principale della legge cilena: «Può essere utilizzata per sviluppare una società migliore, ma anche per creare armi contro l’umanità». A maggior ragione il pericolo esiste quando gli stessi strumenti che, influenzando la nostra mente, consentono di risolvere alcuni drammi degli uomini di oggi, possono mettere a repentaglio l’umanità futura.
Bci: Brain Computer Interface
Per comprendere meglio le implicazioni possibili delle neurotecnologie, cominciamo con lo spiegare che al loro cuore ci sono le citate interfacce cervello-computer (Bci: Brain Computer Interface). Le Bci consentono una comunicazione bidirezionale tra la mente e il supporto esterno: possono, cioè, trasferire dati dal cervello al computer o viceversa, e possono essere invasive (ossia essere posizionate all’interno del cranio di una persona) o non invasive (come un casco). Le Bci invasive, che richiedono un intervento chirurgico per posizionare gli elettrodi direttamente nel cervello di un paziente, si usano da tempo in medicina per aiutare, per esempio, le persone con arti mancanti a sentire caldo e freddo, e a muoversi. ll calcio di apertura della Coppa del Mondo di calcio 2018 in Brasile è stato dato da una persona tetraplegica che indossava un esoscheletro robotico, controllato da una Bci, che le consentiva di muoversi. Nei prossimi anni le stesse interfacce potrebbero aiutare anche i non vedenti e, auspicabilmente, anche le persone afflitte da qualche forma di dipendenza. Casey Halpern, neurochirurgo a Stanford, è riuscito a sopprimere nei topi la propensione a mangiare intervenendo su un’area del cervello detta nucleus accumbens con una leggera scossa elettrica. La speranza è che lo stesso sistema possa funzionare sulle persone con qualche compulsione. Il problema è che le Bci invasive possono essere utilizzate in altri modi. Grazie a un’attivazione di certi neuroni, gli studiosi hanno già indotto topi a bere anche se non ne avevano voglia, o senza aver visto il segnale (un codice a barre) che in precedenza li aveva “allenati” a bere. In pratica, i topi hanno bevuto perché nel loro cervello sono state create allucinazioni artificiali. Si capisce perciò come la tutela del libero arbitrio sia una delle preoccupazioni dei legislatori cileni. Ma se, perlomeno, le Bci invasive richiedono un intervento chirurgico e sono regolamentate nell’ambito medico, così non è per le Bci non invasive, in genere utilizzate per gli stessi scopi di quelle invasive. Come dimostrano alcuni filmati diffusi online, in alcune scuole primarie cinesi è espressamente richiesto agli studenti di indossare cuffie che ne registrano i livelli di concentrazione per comunicarli all’insegnante e successivamente ai genitori senza il consenso del bambino. E se domani le persone non potessero impedire la lettura dei loro pensieri in risposta a un interrogatorio? In Giappone e in India le scansioni cerebrali sono già state usate in tribunale. Ed esperimenti condotti a Cambridge hanno dimostrato che le immagini provenienti dal cervello rivelano perfino se qualcuno sta cercando di sopprimere i ricordi relativi a un reato. Insomma, come spesso accade con l’hi-tech, lo sviluppo della neurotecnologia ha preceduto e oltrepassato i tentativi di nazioni e organizzazioni internazionali di regolarla. E per di più, sostiene Susan Alegre, avvocato esperto in diritti umani e autrice di Freedom to Think: The Long Struggle to Liberate Our Minds, se Zuckerberg, Musk, Cook e gli altri promotori delle Bci si dicono pronti a discutere di etica il motivo è semplice: vogliono essere lasciati liberi di autoregolarsi, evitando così le imposizioni per legge. E poi c’è il secondo problema: il denaro. Negli ultimi 20 anni oltre 19 mld di dollari a livello globale sono stati investiti in più di 200 società private di neurotecnologia. Solo lo scorso anno la citata Neuralink, di proprietà di Elon Musk, ha raccolto 200 mln di dollari in finanziamenti per sviluppare un chip impiantabile che colleghi le menti umane all’Intelligenza Artificiale per creare individui “sovrumani”. Ma se, come adombrato da Yuval Harari nel suo best seller Homo deus (Bompiani, 2018), gli uomini potessero accrescere a dismisura le proprie facoltà fisiche e mentali, che ne sarebbe di chi ha solo “normali” capacità? Quando il diritto cileno enuncia la “parità di accesso alle tecnologie di miglioramento cognitivo”, esso paventa appunto il rischio che chi può pagarsi i “neuromezzi” acceda alle scuole più esclusive o alle professioni più remunerate; chi non può venga relegato a lavori inferiori. E sarebbe il meno: perché, argomentano Diego e Luisa Borbon, studiosi di neurodiritti dell’università di Bogotà, in realtà il neurodiritto al “doping cognitivo” entra in conflitto con il diritto all’identità personale. Man mano infatti che tra i “pionieri” si diffonde il miglioramento della natura umana, si riduce la libertà di coloro che non possono o non vogliono migliorarsi. Il potenziamento intellettuale minaccia cioè di creare standard delle prestazioni lavorative e accademiche tali da «fare pressione sulle persone che non sopportano di essere trattate come inferiori in questi campi rispetto ai loro coetanei “migliorati”». E questo entra in contraddizione con il proposto neurodiritto al libero arbitrio, nel senso che le persone non darebbero il loro consenso al potenziamento “libere dai vizi”, ma per non soccombere alla concorrenza sociale e professionale.
Fonte: neurorights iniative. Infografica: Giorgia Bacis
Il potenziamento intellettuale minaccia di creare standard delle prestazioni lavorative.
Oltre alle diseguaglianze sociali ed economiche, crescerebbero poi quelle tra Paesi ricchi e poveri: perché «affermare per legge che “Lo Stato garantirà la promozione e l’equo accesso ai progressi delle neurotecnologie e delle neuroscienze” può implicare che lo Stato debba fornire e sovvenzionare questi tipi di tecnologie», evidenziano ancora gli studiosi di Bogotà. Oltre a creare un enorme problema di finanza pubblica, questo diritto sembra inapplicabile in Paesi in cui non viene fornito neppure l’accesso ai bisogni più elementari, come l’alimentazione o l’assistenza sanitaria. «Di conseguenza, i divari tra paesi sviluppati e in via di sviluppo si allargheranno, aumentando le asimmetrie di potere», evidenziano i Borbon. Per questo motivo, una proposta etica dovrebbe essere orientata verso nuove leggi e trattati internazionali. Non farlo comporterebbe di lasciare campo libero a illimitati interessi di quelle aziende che sviluppano, a spese dello Stato, neurotecnologie con finalità non terapeutiche né di salute pubblica, nel nome di un nuovo ambiguo diritto umano al miglioramento. Esiste perciò un ulteriore e più subdolo modo in cui gli interessi privati potrebbero mettere a rischio il diritto all’identità personale e alla privacy mentale dei più deboli. Mettiamo che le aziende neuro tech seguano il modello Spotify: un soggetto può avere accesso a Bci migliorative e gratuite in cambio dell’accettazione di un tot di consigli pubblicitari. Come faremo poi a sapere se certi impulsi sono nostri o se un algoritmo ha stimolato quell’improvvisa voglia di uno spritz o di una borsa Gucci? Secondo la rivista Science, prima di ricorrere alle Bci, vari marchi stanno studiando come manipolarci quando siamo più vulnerabili: ossia, nel sonno. La cosiddetta “targeted dream incubation”, infatti, usa la stimolazione sensoriale prima di andare a letto per incidere sui sogni delle persone. Nel 2021 il marchio di birra Coors ha fatto guardare a 18 persone un video di 90 secondi con cascate, montagne e birra Coors. Le “cavie” hanno dichiarato di aver sognato la birra, allarmando i 40 scienziati che hanno firmato una lettera aperta contro tali esperimenti. Poiché non ci sono normative che riguardino specificamente la pubblicità nei sogni, anche senza le Bci, le aziende potrebbero utilizzare dispositivi come Alexa per rilevare le fasi del sonno delle persone e riprodurre suoni che potrebbero influenzare i loro comportamenti: «È facile immaginare un mondo in cui gli smartspeaker – attualmente nelle camere da letto di 40 milioni di americani – diventino strumenti di pubblicità notturna passiva e inconscia, con o senza il nostro permesso», afferma il documento. Proprio temendo le ingerenze delle società private, i membri della NeuroRights Foundation chiedono che le aziende che producono neurotecnologie aderiscano fin dall’inizio a un codice etico, un “giuramento tecnocratico” analogo al giuramento di Ippocrate dei medici. Basterà? Difficile crederlo. Per questo, regolamentare i neurodiritti è più urgente che mai. La tecnologia corre troppo veloce per lasciare che faccia il suo corso.