Ventotene, fascino remoto
È un’isola piccola, con poca prospettiva, ma molta profondità. I venti la amano, lì si rinvigoriscono. Talvolta il maestrale, talvolta lo scirocco, incipriano la pelle e i tavolini dei bar. Ventotene è una di quelle mete talmente complesse da allontanare i turisti, quelli che prediligono i luoghi senza testo, pieni di immagini, di gente e di sé: lo struscio d’Ischia, il “burdel” di Capri o la caciara estiva di Ponza. Le auto deluxe sono pregate di scorrazzare altrove. Lasciate Ventotene agli amanti di un’isola tormentata e luminosa. Il tormento, del resto, è il suo marchio di fabbrica. Ventotene è l’isola degli esili. Dai tempi dei tempi.
Terra di storia, vento e lacrime
Poco più di duemila anni fa, gli imperatori romani ne fecero la capitale della “disgrazia”. Giulia, figlia di Ottaviano Augusto, fu costretta ad approdare su quest’isola sperduta nel mar Tirreno a causa dei suoi costumi leggeri. Lì consumò i suoi giorni, proprio come Agrippina maggiore, mandata in esilio da Tiberio, Ottavia, moglie di Nerone, nel 62, e, più tardi, Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano… Le lacrime di allora sono ormai evaporate. Della sontuosa Villa di Giulia restano solo le rovine archeologiche. Mentre gli esiliati dell’Impero maceravano al vento e sotto il cielo azzurro, gli schiavi scavavano il porto, nonché cisterne, acquedotti e cunicoli nel tufo vulcanico. Nel XIX secolo, Ventotene, già amante della prigionia, passa al livello superiore. Nel 1795, sul piccolo isolotto di Santo Stefano, posto proprio di fronte all’isola, viene eretto un penitenziario dal sadismo altamente professionale. Un luogo uscito dall’Inferno dantesco e dai suoi nove cerchi, basato su un principio molto semplice: in una struttura dalla forma semicircolare, le 99 celle di 4,5 m per 4,2 m erano distribuite su tre livelli. Progettate per 400 prigionieri, potevano ospitarne fino a 800. Si affacciavano su una torre di avvistamento esagonale centrale. Da lì un unico sorvegliante poteva osservare tutti i prigionieri. Senza essere visto. Aveva il controllo completo e costante dei detenuti, riuscendo a “ottenere potere mentale sulla mente”. Si tratta del principio panottico, elaborato da Jeremy Bentham (1748-1832) e pensato, dapprima, come modello di prigione e, più in generale, come principio di un’organizzazione sociale e politica alla ricerca della più grande efficienza produttiva e della massima sicurezza possibile. Il concetto è stato ampiamente analizzato dal filosofo Michel Foucault nel suo saggio Sorvegliare e punire (1975). “Ha le sembianze di una forma di formaggio adagiata su un tappeto d’erba”, si legge nelle descrizioni. I prigionieri avrebbero apprezzato l’idea, perché lì in realtà morivano di fame, si uccidevano a vicenda e soccombevano alle percosse sotto le lenzuola. Questo trattamento disumano aveva perfino un nome: Sant’Antonio. Storie che fanno ancora accapponare la pelle: è ciò che visse lo scrittore Luigi Settembrini, nel XIX secolo, ma anche successivamente, nel 1929, Sandro Pertini, che sarebbe diventato, nel 1978, Presidente della Repubblica Italiana. Con Mussolini, nel 1932, Ventotene aggiunge un’ulteriore chiave al mazzo, con un nuovo centro di detenzione. Furono costruite tredici caserme (distrutte nel 1980), che ospitarono più di 800 prigionieri in semilibertà. Rinchiusi di notte, potevano circolare nel villaggio durante il giorno. Disponevano di biblioteca e mensa. Forse facevano anche il bagno sotto l’occhio vigile dei Carabinieri, come fecero gli appartenenti del gruppo terroristico delle Brigate Rosse qualche decennio dopo. L’isola fu liberata dagli americani nel 1945, a seguito di un bluff: si finsero un esercito numeroso, ma i soldati presenti erano solo 46. Tra questi: John Steinbeck, Premio Nobel 1962, l’attore Douglas Fairbanks, Henry Ringling, direttore del circo Barnum. Il penitenziario chiuse i battenti il 2 febbraio 1965. Oggi, questa Alcatraz italiana soffre la gestione a distanza. L’isola è abbandonata. Ospitava anche una sottospecie di lucertola, la lucertola di Santo Stefano, oggi estinta per via dell’azione combinata di gatti selvatici, serpenti e un agente patogeno sconosciuto. L’Europa ha comunque stanziato 80 mln per costruire pontili di accesso e, presto, una scuola di studi politici e un museo
l’interno del carcere abbandonato di santo stefano.
un’abitazione tipica
Le ferite e le rinascite sul mare
Ventotene non è Caienna, capitale della Guyana francese. Ricorda un po’ Belle-Île-en-Mer, in Francia, e la sua cittadella fortificata. Ma il paragone finisce lì. Pur vicina agli inferi, ha comunque il suo angolo di paradiso. Oggi, se dite di andare a visitarla, nessuno vi guarderà con sospetto, chiedendovi se avete conoscenti in prigione. L’isola ha un tono sommesso. Non per farsi dimenticare. Ma perché vuole un po’ di respiro, dedicarsi a se stessa. Tra i suoi abitanti ci sono più contadini che pescatori. In particolare, coltivano una lenticchia degna di nota. Ventotene non trascina la sua leggenda come una palla al piede. Sembra evasa dalla sua storia. Si è lasciata plasmare dai venti e dal tempo. L’isola ha il fascino fatale dei luoghi feriti. È qui che risiede la sua bellezza: radiosa e commovente. Non è un’isola molto grande. È lunga tre chilometri e larga meno di uno. Per far passare uno scooter, ci si deve incollare al muro di una casetta o a un muretto… Una volta un furgoncino, per scansare una signora con la testa tra le nuvole, si è tuffato nel porto. «Lo ricordo molto bene», dice Simone Piciucchi, proprietario del ristorante Porto Vecchio, «sono stato io a ripescarlo, perché sono un subacqueo professionista». Il fascino dell’isola è anche questo. Tutto è in armonia. Potete ritrovare voi stessi in una passeggiata di cinque minuti in compagnia dei profumi degli aranci in fiore, del rosmarino, dei limoni, fichi e della macchia. Il tempo è bello e gradevole. Passeggiare sulle strette banchine del porto significa immergersi in un universo cinematografico. In uno di quei film tormentati quanto le canzoni estive con la loro gioiosa tristezza: tuffarsi negli abissi spumosi, per riscoprire se stessi. Come nel film Sul Mare (2010), diretto da Alessando D’Alatri e tratto da un romanzo di Anna Pavignano, Ventotene è lì, sullo schermo, con i suoi vicoli colorati, le calette, le spiagge, il dolce far niente.
cala nave e la sua sabbia lavica.
Ventotene un’isola in via di estinzione?
Se i venti la attraversano imperterriti, gli uccelli amano farvi sosta. Quando sono diretti da o verso l’Africa, è lì che si fermano, si riposano. Si sentono protetti. E ci insegnano le leggi della migrazione, della rinascita attraverso il viaggio. Ma quando si tratta di pronunciarsi sull’integrazione, l’isola si strofina il mento. Un residente afferma: «Qui non si fanno più bambini; se continua così, speriamo di trovarli sotto un cavolo». L’isola, in effetti, si sta lentamente svuotando (754 abitanti, che diventano 5 000 in estate). «Siamo in pericolo di estinzione», nota Anna Curcio, la maestra dell’unica scuola dell’isola. «Non abbiamo nuovi iscritti per il prossimo anno; andando avanti così, rischiamo la chiusura della scuola». Il sindaco Gerardo Santomauro propone di offrire ospitalità alle famiglie di migranti, per ripopolare l’isola. Un’idea che divide gli abitanti di Ventotene, che tuttavia ospita, a fine estate, il Festival della Solidarietà in Europa e nel Mediterraneo, ideato da Abdullahi Ahmed, cittadino italiano, con l’obiettivo di in–coraggiare giovani europei, migranti e rifugiati a ricordare e diffondere l’importanza storica del Manifesto di Ventotene. «Non sono preoccupato», afferma Pier Filippo Trento, titolare dell’albergo Agave Ginestra. «Dovremmo incentivare gli studenti a venire qui, piuttosto che mandarli sulla terraferma. Altrimenti le famiglie perdono il loro equilibrio, finiscono con lo si spezzarsi in due. Qui abbiamo molto da dare, da osservare: la natura, gli uccelli, i fondali, una filosofia umanista ed ecologica». Filippo conosce l’isola come le sue tasche. Da bambino veniva in vacanza con la famiglia in una piccola grotta sul mare, senza acqua né elettricità. Mangiavano le verdure dei contadini, si lavavano con l’acqua di mare. Da allora, insieme al padre, ha costruito il suo albergo e si dedica solamente alla natura. Dopo aver studiato i fondali, ora è appassionato della ricchezza della terra, con la quale nutre un rapporto speciale. Lo testimonia un recente accordo con la Fondazione Yves Rocher per la piantumazione di specie diverse.
uno dei diversi ristoranti dell’isola
piazza castello
L’autenticità che piace ai viaggiatori
È senza dubbio in questa dimensione familiare che Ventotene trova la sua linfa vitale. Se incontrate il pescatore Cristoforo Corragio, al porto, vi parlerà della fragilità del suo mestiere, delle regole non rispettate, mentre pesa un polpo enorme, lo ripone in una cassetta e torna al villaggio. Nel frattempo, il figlio Luigi si dirige in motorino al ristorante La Terrazza di Mimì. Consegna la “cena” che troverete, la sera stessa, cucinata con zucchine saltate in padella. Al Mare di Sapori, lungo la banchina, il figlio è in sala, la madre in cucina, il padre coltiva gli ortaggi presso l’azienda agricola. L’isola vive a catena in formato tribù. I suoi abitanti s’incontrano, si riconoscono, si salutano, con la cordialità che caratterizza i napoletani. Con i pescatori di Ischia, ripopolarono l’isola nel XVIII secolo. Da allora, si vive questa atmosfera amichevole, disponibile, radiosa, coccolata dalla tranquillità materna del mare. L’isola suscita un mare di emozioni contrastanti, connaturate: la speranza costante di una vita oltre, diversa, forse irrealizzabile. E così, Ventotene vive la sua nuova fase di redenzione turistica cercando di realizzare un’utopia del XXI secolo: essere migliori. Ma il traghetto è già lì, al molo, che strombazza come un elefante, tirando le catene. Ha la bocca posteriore spalancata, a voi resta solo un desiderio: non lasciarle l’ultima parola. Perché sarà la vostra: Ventotene.