Agricoltura sostenibile? Sì, grazie
Come un blob lento e inesorabile, il cemento fagocita ogni giorno 15 ettari di suolo italiano. Secondo il rapporto 2021 del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, ogni secondo nel nostro paese scompaiono 2 mq di terreno agricolo e aree naturali sostituiti da edifici e infrastrutture, arrivati lo scorso anno a coprire il 7,11% della superficie della Penisola contro una media europea del 4,2%. Il consumo del suolo sta diventando un tema di salute pubblica con riflessi sulle aree destinate alle coltivazioni. A gennaio, al 14° Forum Globale per l’Alimentazione e l’Agricoltura di Berlino, il direttore generale della Fao Qu Dongyu ha chiesto ai 68 ministri dell’agricoltura di altrettante nazioni presenti all’evento di «assumere impegni più forti verso una gestione sostenibile del suolo». Nel parterre ministeriale mancava il nostro titolare del dicastero agricolo, nonostante il dibattito che in quei giorni agitava il Parlamento e l’opinione pubblica italiana, alle prese con la discussione sull’agricoltura biologica e biodinamica, con una levata di scudi contro quest’ultima di grandi nomi dell’establishment scientifico, allarmati dal fatto che il disegno di legge in discussione riconoscesse la scientificità di alcuni suoi preparati, in primis il “cornoletame”: una serie di otto preparati, numerati da 500 a 507, ottenuti compostando letame in corna di mucca, unito a zoccoli o crine di cavallo, ossia tessuti di cheratina animale, e diluito in acqua, con quarzo, silice pura o altre sostanze. Secondo il teosofo dei primi del ‘900 Rudolf Steiner, lo stesso delle scuole “steineriane”, se lasciati macerare per un certo tempo sotto terra, i preparati dovrebbero rendere il terreno più protettivo e fertile e la coltura più sostenibile. La questione, d’altronde, scotta. Il mercato di prodotti agricoli green cresce a doppia cifra: l’export italiano di prodotti bio e biodinamici, soprattutto verso i paesi del Nord Europa, ha raggiunto nel 2021 i 2,9 mld di €: +11% sul 2020, facendo del nostro paese quello con il maggior valore di scambi verso l’Unione. Nel 2020 l’Italia ha raggiunto la cifra di 2,1 mln di ettari di colture biologiche, quasi il doppio rispetto al 2011. In Germania il ministro dell’Agricoltura e dell’Alimentazione Cem Özdemir prevede un aumento della quota di terreni ad agricoltura biologica al 30% del totale del suo paese entro il 2030. Quello dei prodotti agricoli sostenibili è anche un settore sempre più coinvolto dall’innovazione scientifica che sta puntando i riflettori proprio sul suolo, un elemento del sistema fino a pochi anni fa poco considerato e molto maltrattato. Scienziati e università stanno mettendo in discussione pratiche come gli eccessi di lavorazioni e l’utilizzo eccessivo di fertilizzanti.
Fonte: dati Mipaaf e Demeter. Infografica: Giorgia Bacis
Da qui la domanda: l’agricoltura biologica è davvero più sostenibile?
E quella biodinamica è davvero ispirata da una pseudoscienza? «In questo momento storico è fondamentale portare il suolo al centro dell’attenzione», spiega Bruno Basso, professore al dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente della Michigan State University, che dalla fine dello scorso gennaio siede tra i membri dell’American Association for the Advancement of Science, la più grande società scientifica generale del mondo, un ente che ha come fine di coinvolgere governi, businessmen e il grande pubblico sull’importanza dei progressi scientifici. Esperto di complessità del sistema agricolo, è tra i più importanti innovatori del settore: «La sostenibilità delle lavorazioni del terreno è strettamente legata alla salute delle persone. Negli Stati Uniti c’è un progetto della World Health Organization chiamato “One Health”, ossia “una salute”. Il concetto che la ispira è che la salute degli esseri umani è determinata dalla salute di quello che mangiano; e la salute del cibo è strettamente correlata a dove quel nutrimento viene coltivato. E quindi alla qualità del terreno». Un corretto approccio alle lavorazioni del terreno permette di preservarne la vitalità e incrementarne la biodiversità: «Inoltre rende il sistema agricolo più resiliente. Il suolo della Terra contiene in totale 2 500 gigatonnellate (Gt), ossia 2 500 miliardi di tonnellate, di carbonio: un quantitativo tre volte superiore a quello contenuto nell’atmosfera e quattro volte a quello contenuto in piante e animali», spiega dati alla mano Basso. «La presenza di sostanza organica, cioè di carbonio, conferisce stabilità ai suoi aggregati, permettendogli di incrementare la ritenzione idrica e di affrontare meglio effetti del cambiamento climatico come siccità ed eccessi di precipitazione». Ma come si fa a trattenere la CO2 nel terreno? «Anzitutto riducendo le lavorazioni meccaniche che ne distruggono gli aggregati naturali esponendoli all’ossigeno e alla presenza di microorganismi che li decompongono causando un’importante emissione di CO2».
Viticoltura biodinamica di qualità nella sonoma county californiana
L’agricoltura infatti è il settore produttivo al secondo posto per emissioni di gas climalteranti. Ne produce addirittura il 24% del totale. «L’agricoltura, però, è anche la soluzione del problema, a patto che si adottino nuove tecnologie, non particolarmente costose, come l’utilizzo delle rilevazioni satellitari e la riduzione delle lavorazioni profonde del suolo», chiosa Basso. È indubbio che l’approccio agricolo biologico e biodinamico stiano conoscendo una grande fortuna perché ritenuti una risposta adeguata alla crescente domanda di sostenibilità. Ma cosa significano esattamente questi termini? Rispondono davvero alla necessità di minor impatto ambientale? «Quella biologica è un’agricoltura fatta “senza qualcosa”», spiega Giampaolo Oliviero, imprenditore agricolo che lavora nel framework bio da 30 anni. Oliviero ha fondato con Bruno Basso la start-up Pixag che fornisce soluzioni agricole integrate con l’obiettivo della riduzione di gas serra e del sequestro di carbonio nel terreno: «Semplificando all’estremo, nel biologico non si usano prodotti di sintesi. È questa la grande linea di demarcazione, il protocollo biologico non si basa su altre performance. Questa certificazione ha creato una filiera chiusa di produttori, distributori, costruttori di mezzi tecnici e industrie di agrofarmaci naturali. Ma la norma sul bio, pur richiamando in diverse parti temi come l’ecologia e la sostenibilità, non pone dei vincoli precisi su questo argomento». La sua opinione è che l’approccio agricolo biologico abbia una cornice complessiva ormai desueta: «Negli ultimi anni ci sono state molte evoluzioni tecniche come la creazione di varietà geneticamente resistenti che permettono di evitare trattamenti e sono state prodotte macchine sofisticate per l’eliminazione delle malerbe. Ma sono tutte soluzioni evolute all’interno della stessa, vecchia visione».
Le cascine orsine: 650 ettari di agricoltura e allevamento biodinamici nel parco del ticino.
Il punto debole del biologico?
«Non è un’agricoltura pensata per mantenere l’equilibrio ecologico profondo e complesso del sistema suolo-pianta-clima. E oggi non si può più prescindere dalla complessità di questo rapporto». Per esempio, non si può pretendere di mantenere un’elevata fertilità del terreno semplicemente aggiungendovi fertilizzanti, neppure naturali come il letame. Né aumentando lavorazioni profonde del terreno che provocano emissioni di anidride carbonica: «Sono entrambe operazioni singolarmente efficaci, ma in un’ottica di sistema in contrasto tra loro. Le performance di sostenibilità dell’agricoltura biologica vengono date per scontate per il semplice fatto che si usano prodotti naturali. Ed è preoccupante pensare che questa equivalenza sia automatica, perché di fatto non è così». Paradossalmente la biodinamica, un protocollo ideato negli Anni 20 del XX secolo, ha una base ideologica che parte dalla considerazione della complessità del sistema. «Sotto questo punto di vista è un approccio più attento all’insieme ed è condivisibile», dice Oliviero, «ma le singole azioni che propone non sono misurabili in termini di sostenibilità». Si stima che in Italia gli operatori biodinamici siano circa 4 500, il 5,5% di quelli biologici, del cui protocollo fanno parte nonostante siano a volte percepiti come in competizione, se non in opposizione. «In realtà la biodinamica è la prima forma di agricoltura biologica, quella da cui quest’ultima è nata», rimarca Carlo Triarico, presidente dell’Associazione Biodinamici, una realtà parte di una federazione internazionale di organizzazioni contadine presenti in una sessantina di Paesi. E prosegue: «La sua particolarità è la concezione organicistica o sistemica dell’agricoltura. L’azienda è trattata come un solo ecosistema, un organismo a ciclo chiuso».
20 000 ettari di coltivazioni biodinamiche strappati al deserto d’egitto.
I regolamenti europei del biologico hanno preso ispirazione dai disciplinari biodinamici, che sono però più restrittivi: «Per esempio, dobbiamo usare soltanto il concime recuperato dalle sostanze organiche dell’azienda. Abbiamo l’obbligo di avere animali e di usare mangimi prodotti in azienda». Anche il biodinamico ha i suoi riferimenti di legge: «Sia la normative italiane sia quella europea citano accanto alla biologica l’agricoltura biodinamica. La nuova legge dice che un rappresentante dei biodinamici deve sedere al tavolo tecnico del ministero. Ma quel posto c’è da sempre. Siamo anche nella commissione per la ricerca del ministero. Nell’ultimo regolamento, in vigore dal 1 gennaio 2022, si parla di “tradizione biodinamica”, espressione citata anche dalla normativa europea che riconosce i nostri preparati, come del resto la legge italiana. Questi sono un mezzo tecnico diffuso, normato ed etichettato. Spesso si racconta la biodinamica alla stregua di una stregoneria. Ma non uccidiamo vacche durante la luna piena per prendere le corna…», sospira. I biodinamici hanno anche un organismo di certificazione, Demeter, la cui casa madre è in Germania: «L’ente aderisce all’Ifoam e alla Federbio, le federazioni internazionale e italiana del biologico», rileva Triarico. Oggi gli operatori italiani certificati Demeter sono 783 per un giro d’affari di circa 30 mln di €. Un mercato piccolo, ma vivace. Per rispondere alla domanda crescente del Nord Europa di mele biodinamiche, per esempio, l’Associazione per l’agricoltura biodinamica dell’Alto Adige ha riunito più di 150 aziende creando una comunità di produttori, trasformatori e distributori regionali. Oltre i confini nazionali, abbiamo aziende biodinamiche enormi come Sekem, in Egitto: 20 000 ettari un tempo desertici in concessione quasi gratuita dal governo egiziano: «Ci lavorano oltre 10 000 persone, fornendo anche assistenza sanitaria e istruzione gratuita a 40 000 famiglie. E al suo interno lo stato egiziano ha fondato un politecnico, l’Heliopolis University for Sustainable Development, trasformando la sabbia in un giardino». L’agricoltura ispirata da Steiner piace soprattutto nei Paesi dove la tecnica agricola è più arretrata, come l’India, perché più vicina alla tradizione. Ma anche ai Paesi ricchi. In Germania, il gruppo Dennree, che controlla circa 1 400 supermercati, realizza l’8% dei ricavi (che superano il miliardo di €) da prodotti biodinamici. Anche Edeka, ai primi posti nella grande distribuzione tedesca, potenzia i propri store di prodotti biodinamici tramite accordi con Demeter. In Francia, poi, la biodinamica si coniuga con il lusso estremo (e costoso), come dimostrano etichette vinicole come Bordeaux Chateau Lafite e Cristal nello champagne. Biologico o biodinamico che sia, un dato è incontrovertibile. La sostenibilità agricola è strettamente connessa anzitutto alla riduzione dell’energivoro allevamento e consumo di carne sia all’impiego di compost organici basati sulla filiera animale. Alcuni dati della Food and agriculture organization dell’Onu (Fao) bastano a chiarirlo: se tutti gli abitanti della Terra consumassero i 110 kg di carne pro capite della dieta americana – di contro ai 40 europei – potremmo sfamare non più di 5 mld di persone sugli 8 attuali. Spostando la nostra dieta e le nostre tecniche di coltivazione verso l’abbondante ed economico compost vegetale, a parità di consumi energetici, potremmo sfamarne 15. Questo, negli Anni 20, neppure Rudolf Steiner poteva immaginarlo.