Design effimero, nuove icone del tempo
Marcin Rusak ha trascorso l’infanzia a Varsavia tra serre abbandonate e un immenso giardino che nessuno curava più. Sia il nonno sia il bisnonno erano floricoltori. Poco dopo la sua nascita, però, nel 1987, anni drammaticamente rivoluzionari per tutto l’Est europeo, il vivaio di famiglia chiuse i battenti. Uno dei ricordi più vividi che ha di quel periodo, infatti, è l’odore dei fiori in decomposizione e della terra asciutta di quel desolato ma affascinante paesaggio post-industriale abitato da macchinari in disuso, in seguito materiale fisico e simbolico con cui ha modellato il suo design, fatto di arredi grezzi, ricercatamente poveristi che proprio fiori e foglie incorporano nella loro struttura: «È come se il mio futuro si ricongiungesse con il mio passato», racconta, «e la cultura del consumo nella quale viviamo cedesse il passo a un mondo dove è necessario proteggere le cose che per noi hanno valore». Sembra una contraddizione: partire da un materiale deperibile com’è quello vegetale per creare prodotti dal ciclo di vita breve e tuttavia capaci di opporsi alla smania consumista imperante. Ed eccone subito un’altra: dare valore a ciò che è intrinsecamente effimero, con buona pace di quella felice stagione del design (soprattutto italiana, ma non solo) che predicava se non l’eternità, quanto meno la lunghissima durata dei progetti. Ma è un segno dei tempi, ora che la questione della sostenibilità si va facendo più urgente, che la materia e le sue potenzialità, inclusi i significati simbolici evocati, diventino i protagonisti quasi assoluti delle sperimentazioni simil-alchemiche di un avamposto di designer con a cuore le sorti del pianeta. Non solo fiori e germogli, quindi, ma anche frutta, ortaggi, alghe, funghi e tutta una gamma di materiali momentaneamente salvati dalla discarica vivono una seconda vita come suggestivi oggetti d’arredo, che mutano con lo scorrere del tempo, deperiscono e forse anche “muoiono”, ma comunque non ostacolano il loro smaltimento.
Oggetti d’arredo, che mutano con lo scorrere del tempo.
I lavori dell’australiana Jessie French ne sono un esempio. Secondo la designer, il nostro tempo sulla Terra potrebbe essere segnato in maniera indelebile da penne Bic e altri prodotti usa e getta: «Le materie plastiche realizzate per soddisfare uno scopo a breve termine lasciano tracce che durano più a lungo della nostra vita». Per questo ha dato vita a Other Matter, studio sperimentale con sede a Melbourne che al pari e meglio di altri esplora il potenziale delle bioplastiche basate sulla coltivazione di alghe. Con molti impieghi, che vanno dalla progettazione di materiali a quella di oggetti, mostre e allestimenti con cui mette in discussione il valore di ciò che è (apparentemente) duraturo a favore dell’effimero. Non è la sola: a rivedere il mantra moderno per cui il buon design è per sempre ci ha pensato anche Jonas Edvard. Il creativo danese si professa devoto ammiratore della Natura; la sua ricetta (a tratti stupefacente) per far fronte alla crisi ecologica consiste in micelio di funghi e fibre di canapa con i quali ha realizzato MYX, insieme di arredi la cui struttura viene coltivata (grazie al fungo che si nutre della cellulosa contenuta nelle fibre) e fatta crescere in forma per essere pronta nel giro di poche settimane. Il composto organico che ne risulta è al tempo stesso leggero e resistente e, se disperso nel terreno, ne migliora la qualità: «È importante che noi designer non contribuiamo più a immettere nell’ambiente materiali di lunga durata, che rimangono come oggetti del passato, ma cerchiamo di sviluppare prodotti in grado di rientrare nel ciclo energetico», afferma. Con un’altra qualità: la capacità di rivaleggiare con i tradizionali prodotti di design industriale.
vegana banana bag chair di erez nevi pana è in fibra di banana autoprodotta.
la sedia myx di jonas edvard è coltivata a partire da micelio di funghi e fibre di canapa.
grazie a resina o metallo, marcin rusak preserva elementi vegetali dal decadimento.
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100% design responsabile e sostenibile
Oggi, abbracciare l’effimero implica una profonda revisione delle pratiche tradizionali del design e un’apertura pressoché totale nei confronti non solo delle materie prime, ma anche delle discipline, in direzione di una corrispondenza sempre più marcata con l’arte. Lo testimonia il proliferare di progetti indipendenti, dove è protagonista l’individualità del creativo prima ancora della fattibilità del progetto. A guardare le lampade Veggie di Nir Meiri, un israeliano con base a Londra, fatte con foglie di cavolo rosso, viene in mente per esempio la lattuga Senza titolo (1968) dell’artista Giovanni Anselmo, provocatoriamente agganciata a un pilastro di granito a siglare il legame indissolubile dell’essere umano con la natura, perché man mano che il vegetale appassisce va rimpiazzato con un nuovo cespo. Nel caso di Meiri – che di lampade ne ha fatte davvero di tutti i gusti, dal sale ai funghi passando dalle alghe – l’ortaggio diventa «fonte inesauribile di colori, geometrie e composizioni» destinati a modificarsi con l’uso e la cura. Si direbbe quasi che abbia preso alla lettera l’insegnamento di Bruno Munari, che nel suo libretto Good Design del 1963 rintracciava il design perfetto nella struttura di un’arancia. Un altro israeliano, Erez Nevi Pana, è dedito alla sperimentazione di materiali non convenzionali. Dopo il sale, oggetto della sua tesi di laurea alla prestigiosa Design Academy di Eindhoven, ha rivolto la sua attenzione a steli e foglie di banane da lui stesso coltivate, con cui realizza una fibra multiuso «100% sia responsabile, sia sostenibile». Vegano convinto anche nel design, impiega materie escluse da processi produttivi di tipo industriale creando l’occasione per riflettere su temi quali l’autosostenibilità e il riscaldamento globale. Nel suo caso, come in quello degli altri designer citati, opporre al duraturo una poetica della deperibilità, con oggetti che mutano al pari dei bisogni e desideri umani, è un modo per incoraggiare un rapporto più profondo con l’ambiente. Non soltanto: la “coscienza dell’effimero”, per dirla con il critico Gillo Dorfles, permette di concepire forme irrealizzabili sul versante del design permanente. E che cosa c’è di più liberatorio per i progettisti che rivendicano la manualità e – a volte – anche l’imprecisione delle proprie creazioni dello sperimentare, senza il fardello del “durare per sempre”
alcune delle stoviglie realizzate dall’australiana jessie french con bioplastiche a base di alghe.
foglie di cavolo rosso trattate con collanti acquosi per le lampade veggie di nir meiri.